Condannati per mafia: l’impegno in politica è costituzionalmente corretto?

Sul pensiero del giudice Alfredo Morvillo, espresso per criticare il rapporto tra condannati per mafia e politica e su quello di Maria Falcone, altrettanto chiaro, si esprime il prof. Vincenzo Musacchio. 

Il tema è particolarmente complesso e non può essere banalizzato, ma al contrario analizzato e valutato con cognizione di causa. C’è qualche studioso che – semplificando troppo il tema – afferma, civilmente, che una condanna penale, anche per delitti di mafia, non comporti affatto un giudizio di perpetua indegnità morale o di perpetua inaffidabilità sociale o politica della persona condannata. È un’ovvietà. I diritti naturalmente sono garantiti a tutti anche a chi ha sbagliato e ha pagato il suo errore. Non occorre un luminare del diritto per comprendere questo dato. Chi cita la Costituzione in maniera assiomatica però si dimentica un altro articolo che andrebbe evidenziato al lettore: l’art. 54. Quest’articolo, troppo spesso bistrattato, non ha solo una valenza giuridica, il suo assunto è anche morale. Sì, proprio morale, una parola che a tanti oggi incute quasi ribrezzo. I Padri costituenti che erano luminari e studiosi eccellenti e di profonda saggezza, conoscevano già bene il Popolo cui la Costituzione si sarebbe rivolta. Lo dimostra proprio quel secondo comma dell’articolo 54 laddove si statuisce il dovere di chi esercita funzioni pubbliche di adempierle con disciplina e onore. L’esempio! Come dire: inutile pretendere dal Popolo il rispetto della legge se poi chi andrà a rappresentare lo Stato e le sue istituzioni non è certo di buon esempio. Questa norma quindi rappresenta una sorta di “dovere morale rafforzato” di fedeltà, in base alla quale chi esercita pubbliche funzioni deve operare con imparzialità e per il bene comune, non per fini personali o criminali. A rendere effettivi i principi non sono le parole, ma gli uomini che li rappresentano. Sappiamo tutti che la pena abbia una finalità rieducativa,  risocializzatrice, riabilitativa. Chi è stato condannato per mafia è libero di impegnarsi in politica. Molti condannati per mafia che hanno scontato la pena mi pare si siano candidati. La cosa che nessuno vuole evidenziare, dolosamente o colposamente, è che tali candidati possano essere assunti ad esempio e dirigere la politica di un territorio. Il vulnus che dovrebbe essere messo al centro della discussione è il seguente: possono queste persone esercitare un ruolo politico attivo, condizionando le dinamiche politico-elettorali di un territorio? La mia risposta ferma e decisa è no! Una cosa è il diritto a ricandidarsi che, in questo caso, presuppone un giudizio di riabilitazione politica e sociale ancora da dimostrare, altra cosa è condizionare le politiche elettorali di un territorio fungendo da guide, da esempi, spesso anche decisivi. La nostra Costituzione ci suggerisce che esiste anche il merito politico, ma questo ovviamente lo decideranno i cittadini con il loro voto. Io sono fermamente convinto nell’affermare che se ritornano in politica i condannati per mafia un dato è inconfutabile: non c’è stato nei fatti quel rinnovamento morale e politico che invocava Paolo Borsellino e che ci si sarebbe aspettato dopo gli anni novanta e dopo quelle stragi che hanno spezzato i cuori di tantissime persone perbene.

Vincenzo Musacchio, criminologo forense, giurista e associato al Rutgers Institute on Anti-Corruption Studies (RIACS) di Newark (USA). Ricercatore dell’Alta Scuola di Studi Strategici sulla Criminalità Organizzata del Royal United Services Institute di Londra. Nella sua carriera è stato allievo di Giuliano Vassalli, amico e collaboratore di Antonino Caponnetto, magistrato italiano conosciuto per aver guidato il Pool antimafia con Falcone e Borsellino nella seconda metà degli anni ’80.  È oggi uno dei più accreditati studiosi delle nuove mafie transnazionali, un autorevole studioso a livello internazionale di strategie di lotta al crimine organizzato. Autore di numerosi saggi e di una monografia pubblicata in cinquantaquattro Stati scritta con Franco Roberti dal titolo “La lotta alle nuove mafie combattuta a livello transnazionale”. È considerato il maggior esperto di mafia albanese e i suoi lavori di approfondimento in materia sono stati utilizzati anche da commissioni legislative a livello europeo.