Sono passati trentuno anni dalla strage di Capaci del 23 maggio 1992, nella quale morirono Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo, anche lei magistrato, e gli uomini della scorta Rocco Dicillo, Antonio Montinaro e Vito Schifani. Quell’orrendo 23 maggio 1992 fu l’inizio di una stagione che passerà alla storia come la strategia del terrore voluta da Totò Riina. Il primo da colpire doveva essere Giovanni Falcone, che assieme al collega e amico Paolo Borsellino con il “maxiprocesso” aveva fatto condannare i vertici della mafia siciliana. Stavano arrivando anche al famoso “quarto livello”. Falcone aveva esplorato la complessità e compreso le modalità operative di Cosa Nostra. Sapeva come contrastarla e colpire i suoi punti vitali. Ancora laureando, scrissi a Giovanni Falcone una lettera nella quale lodavo il suo lavoro e quello di tutto il pool antimafia di Palermo ma gli rimarcai la non condivisione del trasferimento a Roma al Ministero di Grazia e Giustizia (come si chiamava un tempo). Non mi aspettavo risposta, sia per il momento storico in atto, sia per gli impegni onerosi di Falcone. I fatti invece mi smentirono. Il 21 febbraio 1992 arrivò la lettera di Giovanni Falcone. L’ho tenuta in uno scrigno da allora, nessuno ne conosceva l’esistenza, neanche la mia famiglia. Poi ho deciso di leggerla esattamente 23 anni dopo agli studenti del liceo Romita di Campobasso alla presenza di Pino Arlacchi, amico e collaboratore stretto di Falcone e Borsellino. C’è stata una grandissima commozione in sala ed ho capito che era ingiusto tenerla solo per me. Soprattutto per il suo messaggio finale che, se fosse vivo Falcone, sarebbe ancora una volta rivolto a tutti i giovani come ero io all’epoca. Giovanni Falcone non lasciò la Procura della Repubblica di Palermo per paura. Così testualmente mi rispose: “Anche io come lei sono convinto che il mio posto sia a Palermo, ma ci sono momenti in cui occorre fare delle scelte e impiegare tutte le energie possibili per la lotta alla mafia. Mi creda, il mio non è un abbandono. Continui a credere nella giustizia, c’è tanto bisogno di giovani con nobili ideali”. Nessun abbandono, dunque, dietro la scelta di passare alla Direzione Generale affari penali del Ministero di Grazia e Giustizia. Ma la volontà di ampliare il raggio della lotta alla mafia. Mi auguro davvero che quello che mi scrisse trentuno anni fa si possa finalmente realizzare e che alla fine arrivino finalmente quei “giovani con nobili ideali” che si impegnino concretamente nella lotta contro le mafie.
Vincenzo Musacchio