Il viaggio apostolico di Papa Francesco in Ungheria, svoltosi dal 28 al 30 aprile scorsi, ha suscitato riflessioni, ipotesi e perfino illazioni in merito al tema che ingombra i tavoli delle cancellerie: quello della pace in Ucraina.
La persistenza della guerra, a dire il vero, fa della questione ucraina un tema costante, essendo le attenzioni del pontefice rivolte a chi c’è e a chi ci sarà dopo che si sarà posto fine al martirio di tante vittime innocenti.
Al suo arrivo, dopo la visita di cortesia al Capo dello Stato ungherese a Palazzo Sándor e l’incontro con il Primo Ministro, Francesco ha incontrato all’ex monastero carmelitano le autorità e i rappresentanti della società civile magiara, oltre al Corpo Diplomatico. Il Papa ha ricordato la dichiarazione di Schuman del 9 maggio 1950, che ammoniva gli europei a realizzare l’idea di Europa basandosi sulla pace. «La pace mondiale – disse Schuman – non potrà essere salvaguardata se non con sforzi creativi, proporzionali ai pericoli che la minacciano». Schuman scolpì il suo credo europeista in queste parole: «Il contributo che un’Europa organizzata e vitale può apportare alla civiltà è indispensabile per il mantenimento di relazioni pacifiche».
Francesco ha ricordato anche il discorso che Alcide De Gasperi pronunciò alla “Tavola rotonda d’Europa” convocata a Roma il 13 ottobre 1953. «È per se stessa, non per opporla ad altri – disse il grande statista trentino, alla presenza di Schuman e di Adenauer – che noi preconizziamo l’Europa unita…lavoriamo per l’unità, non per la divisione»
Da tali insegnamenti Francesco ha mutuato il concetto del fondamentale ruolo storico dell’Europa, che ha definito «memoria dell’umanità». Per questo il Papa ha insistito sulla necessità di «unire i distanti, di accogliere al suo interno i popoli e di non lasciare nessuno per sempre nemico». Ecco, dunque, «un’Europa che non sia ostaggio delle parti, diventando preda di populismi autoreferenziali, ma che nemmeno si trasformi in una realtà fluida, se non gassosa, in una sorta di sovranazionalismo astratto, dimentico della vita dei popoli»; un’Europa che sia «centrata sulla persona e sui popoli, dove vi siano politiche effettive per la natalità e la famiglia […], dove nazioni diverse siano una famiglia in cui si custodiscono la crescita e la singolarità di ciascuno».
Le idee di pace, di accoglienza e di un’Europa protagonista del suo futuro sono stati fra i temi portanti della visita papale un Ungheria. Com’è noto, tuttavia, ha attirato grande attenzione la conferenza stampa tenuta da Francesco sul volo di ritorno. Quando Eliana Ruggero, corrispondente dell’AGI, gli ha chiesto se il Metropolita Hilarion (incontrato dal Papa prima del viaggio, e poi in Ungheria) e il premier Orbán avrebbero potuto diventare «canali di apertura verso Mosca per accelerare un processo di pace per l’Ucraina, o rendere possibile un incontro» con Putin, il Papa ha così risposto: «Credo che la pace si faccia sempre aprendo canali; mai si può fare una pace con la chiusura. Invito tutti ad aprire rapporti, canali di amicizia. Questo non è facile. Lo stesso discorso che ho fatto in genere, l’ho fatto con Orbán e l’ho fatto un po’ dappertutto». Completando la sua risposta alla corrispondente, che chiedeva se Hilarion e Orbán avrebbero potuto agevolare un suo incontro con Putin e fare da intermediari, Papa Francesco ha risposto con una frase che è stata ripresa dai giornali di tutto il mondo: «Lei può immaginare che in questo incontro non abbiamo parlato solo di Cappuccetto Rosso, abbiamo parlato di tutte queste cose. Si parla di questo perché a tutti interessa la strada della pace. Io sono disposto, sono disposto a fare tutto quello che si deve fare. Anche adesso è in corso una missione, ma ancora non è pubblica, vediamo…Quando sarà pubblica ne parlerò».
Missione di pace, missione di mediazione, missione di persuasione?
L’ultima domanda rivolta in aereo al papa da una corrispondente estera (Eva Fernández, di Radio Cope) ha riguardato la richiesta di aiuto dell’Ucraina al Vaticano «per riportare i bambini portati forzosamente in Russia»; una richiesta che Francesco avrebbe accettato «perché la Santa Sede ha fatto da intermediario in alcune delle situazioni di scambio di prigionieri, e tramite l’Ambasciata è andata bene». Approfondendo la sua risposta, il Papa ha aggiunto: «È importante, almeno la Santa Sede è disposta a farlo perché è giusto, è una cosa giusta e dobbiamo aiutare, aiutare a che questo non sia un casus belli, ma un caso umano», perché «dobbiamo fare tutto quello che è umanamente possibile».
Il Papa era ancora in volo verso Fiumicino che quel suo accenno alla “missione in corso”, battuto da tutte le agenzie, aveva già destato ulteriori interrogativi, anche perché il tema era chiaramente distinto da quello della restituzione dei bambini e dei prigionieri di guerra. Com’è noto, Mosca e Kiev hanno subito dichiarato di essere all’oscuro di una missione di pace vaticana. Ma, si sa, la smentita e la dissimulazione sono il riparo più sicuro per operazioni di questo genere, che debbono rimanere riservatissime.
La recente visita di Zelensky al Papa aveva acceso più di una speranza, ma in verità ha fatto registrare un passo indietro, dato che il presidente ucraino è parso non aver colto il senso dell’azione e della mediazione vaticana. Zelensky non ha capito che, proponendo la sua mediazione, Francesco non è mai stato disposto a una pace a tutti i costi, anche senza giustizia. Regresso, dunque, considerato anche il contorno mediatico (nel corso della visita di Zelensky e immediatamente dopo) dell’onnipresente Bruno Vespa.
In occasione della recente sessione del Consiglio d’Europa a Reykjavik, il Segretario di Stato cardinale Pietro Parolin, è tornato sul tema: «La Santa Sede continuerà a fare la sua parte» per creare «una pace giusta in Ucraina», perché «non possiamo accettare passivamente che la guerra di aggressione continui in quel Paese tormentato».
È in questa direzione che la Santa Sede continuerà a muoversi. Per quanto strano sembri, il quadro ideale resta sempre quello di un “modello Helsinki 2.0”, che si tradurrebbe in una mediazione in ambito OSCE, l’organizzazione che ospita i contendenti su un piano di parità, e che potrebbe essere un “laboratorio di pace” aperto anche a Paesi esterni ad essa.
Matteo Luigi Napolitano