PASTORALE CARCERARIA

NEL CARCERE, GIUSTIZIA E NON GIUSTIZIALISMO

RADUNO CAPPELLANI DELLE CARCERI ABRUZZO MOLISE

 

Un incontro con i cappellani delle carceri mi riporta alla mia prima esperienza da prete novello,quando il mio Vescovo di Crotone mi inviò a dire una parola di speranza, presso i tanti carcerati di quell’Istituto penitenziario. Anni diversi, dove compresi che il servizio vero e completo d un cappellano non si svolge solo dietro le sbarre, ma soprattutto al di fuori, nella società. Demmo inizio ad una serie di incontri su “Carcere e società”, di forte impatto culturale. La stessa esperienza ho fatto il giorno 16 febbraio, a Termoli, incontrando i cappellani delle carceri di Abruzzo e Molise.

Tanti presenti, tranne Larino, Lanciano, Isernia, Chieti, Vasto e Avezzano. Cordiale la conversazione; sincere le testimonianze; coraggiose le analisi, specie quando si è parlato della tremenda realtà del 41 bis, attuato in alcuni istituti abruzzesi. Ho riletto con loro la miracolosa liberazione di Pietro, tratta da Atti 12,1-17. Una serie di interventi, per dimostrare che tutte le porte possono essere aperte quando la mano di Dio opera e quando la fede ci accompagna. In particolare, raccogliendo la forza della mia esegesi catechistica, i cappellani hanno ripreso un concetto fondativo. Pietro esce di notte ma trova una finestrella accesa, nel cuore della notte, perché c’è una comunità che prega per lui, con un’intercessione incessante. Quella finestra accesa è il segno di una comunità che attende, che vigila, che non lascia soli nemmeno i fratelli detenuti. Tutti hanno perciò insistito sulla necessità di offrire ai carcerati questa stessa luce accesa e questa comunità che accoglie nel momento in cui finisce la detenzione. E’ infatti decisivo per loro trovare una comunità accogliente, che apra le porte e crei la luce accesa nel cuore della loro notte. Come esempio, è prezioso quanto avviene a Campobasso, dove i detenuti in permesso sono accolti da famiglie nelle loro case per il pranzo, in una situazione normale. Si sentono così aspettati dalle famiglie e accolti con onore nelle loro case E questo fa la differenza! Non una cultura giustizialista, ma una azione di accoglienza fraterna e innovativa.

Tutto cambia! A proposito del 41 bis, abbiamo ascoltato testimonianze di forte dolore. Soprattutto abbiamo letto insieme la riflessione che Paolo Borgna ha scritto su Avvenire, in prima pagina, il 7 febbraio 2023. Dove viene ribadita la utilità di questa normativa, perché separa i carcerati pericolosi dalla società, ma viene anche chiesto di adeguarlo ai parametri europei, privato di restrizioni inutilmente vessatorie». Ed è stata questa la posizione anche dei cappellani e mia di vescovo. A questo proposito come vescovo della Locride ho citato una mia esperienza personale. Ricordo la violenza di un ragazzo quindicenne di san Luca, che, avendo il papà al 41bis non ha potuto abbracciarlo fisicamente, perché rinchiuso dai vetri. Questo ragazzo, disgustato, sfogava la sua rabbia contro lo Stato, prendendo a calci le macchine delle professoresse della sua scuola Media. Questo gesto, a cui io ho assistito direttamente. ci fa interrogare su quale saranno le conseguenze di questo regime carcerario sui figli e quindi sui cittadini di domani. Vivace quindi il dibattito. Capace di guardare oltre, appunto di “intravedere” oltre le sbarre, per capire quel pezzetto di società che deve sempre essere letto alla luce dell’arti 27 della Costituzione Italiana, dove la pena è pensata sempre come occasione di redenzione dell’imputato e mai come vendetta sociale, contro chi ha fatto il male. Questo allora è proprio il compito di ogni cappellano. Rendere giusta e mistericoridosa la società, anche e sopratutto verso chi ha sbagliato, memori sempre del monito di Gesù: «Ero carcerato e siete venuti a visitarmi!».

+ padre GianCarlo Bregantini

Ancora sul caso Cospito e 41bis

“Senso comune e buon senso”,  tratto da AVVENIRE, 7 febbraio 2023.

“Il buon senso c’era, ma se ne stava nascosto per  paura del senso comune»

A tanti di noi, in questi giorni di diatribe su caso Cospito e su 41bis, è tornata in mente questa frase di Alessandro Manzoni, a proposito della peste milanese, che molte volte ci è stata ricordata dalla saggezza di Liliana Segre. Già:basterebbe tornare al buon senso per trovare una soluzione, mediando tra le varie esigenze che vengono sventolate come striscioni nello stadio. Infinite volte è stato ricordato    che il 41bis nacque,come regime eccezionale e transitorio,nel tempo del furore che seguì le stragi di Capaci e via D’Amelio. Quando la possibilità dei boss mafiosi di impartire dal carcere ordini assassini (e dunque la necessità di impedire qualunque comunicazione con l’esterno) era qualcosa di tragicamente vero.

Sennonché, come quasi sempre avviene in Italia, di proroga in proroga, la norma transitoria ed eccezionale è diventata stabile. Soprattutto,la tavolozza dei reati per cui è possibile il provvedimento con cui il Ministro della Giustizia sospende «l’applicazione delle regole di trattamento» e ogni misura alternativa si è ampliata a fisarmonica, seguendo i vari «allarmi sociali» su vecchi e nuovi fenomeni criminali, fino a comprendere ora delitti incommensurabilmente meno gravi di quelli mafiosi.

Solo questa smisurata espansione può spiegare il fatto che oggi ci siano, in regime di 4lbis, le 700-800 persone di cui ci viene dato conto. Che ci siano, in Italia, centinaia e centinaia di persone ritenute in grado, qualora comunichino con altri pur rimanendo dietro le sbarre, di attentare alla sicurezza nazionale è, di per sé, un dato che dovrebbe far pensare. Infine, le privazioni imposte ai detenuti in regime di 41bis sono sempre più accanite e incomprensibili: il divieto di sentire musica, il divieto di tenere con sé foto dei propri familiari; una sola ora al mese di colloqui con un parente; un’ora d’aria quotidiana in “socialità”; rigorosamente contingentati; la presenza di un agente di polizia a qualunque tipo di visita medica, anche intima.

Si tratta di divieti frutto di scelte amministrative e non imposte dalla legge (che,semplicemente, parla di «restrizioni necessarie per il  soddisfacimento»delle esigenze di sicurezza”).

È grazie a questa interpretazione della norma che il 4lbis si è trasformato, anche nella comunicazione mediatica, in “carcere duro”. Carcere duro significa carcere come vendetta, carcere come annientamento della persona (come da decenni denunciano gli avvocati), carcere come strumento di pressione per indurre a”collaborazioni” con l’autorità giudiziaria.

Marcello Bortolato, giudice di sorveglianza di enorme esperienza (e autore di un libro: “Vendetta pubblica. Il carcere in Italia”-che molti politici che vogliono”buttare via la chiave” dovrebbero leggere) ha dichiarato in un’intervista del 4 febbraio ad “Avvenire”:«Questo istituto va mantenuto, ma adeguato ai parametri europei e privato di restrizioni inutilmente vessatorie».

Finalmente, un po’di buon senso, che non ha paura del senso comune! Questa davvero è la soluzione su cui possono convergere i sostenitori di posizioni apparentemente opposte.

Quella di chi vorrebbe l’abolizione sic et simpliciter del 4lbis per tutti i reati, anche quelli di mafia (posizione che ha storicamente una sua legittimità posto che l’epoca della mafia stragista è superata; ma che politicamente non pare oggi percorribile). E quella di coloro che ritengono che è giusto che lo Stato possa differenziare i regimi di detenzione a seconda della pericolosità del detenuto e non debba “abbassare la guardia” verso una mafia che non è più quella del l992 ma che vive come un cancro cangiante e sempre aggressivo. E poiché queste preoccupazioni vengono espresse da magistrati e funzionari dello Stato che, nei decenni scorsi, hanno affrontato enormi pericoli e sacrifici nel contrasto legale alla mafia, non possiamo essere sordi ai loro ammonimenti.

Attenuare ora le modalità di attuazione del 41 bis significa forse cedere a un ricatto fatto allo Stato da un singolo detenuto? È bene guardare da un’altra prospettiva: che l’enorme clamore suscitato dalla vicenda di quel detenuto serva all’urgente riflessione che da anni molti sollecitavano. E ci spinga a riportare un istituto tanto controverso nell’alveo della Costituzione e del suo articolo 27.

Paolo Borgna