DOSSIER PROVVISORIO PER LA PACE.

Una giornata all’Ambasciata

Lo scorso 13 dicembre chi scrive ha avuto l’onore di aprire all’Ambasciata d’Italia presso la Santa Sede i lavori della tavola rotonda intitolata L’Europa e la guerra, dallo spirito di Helsinki alle prospettive di pace. La conferenza è stata organizzata sotto gli auspici dell’Ambasciata, di Vatican Media e della rivista “Limes”, il cui direttore Lucio Caracciolo ha fatto da moderatore. Oltre al sottoscritto vi hanno partecipato Andrea Tornielli, Direttore Editoriale dei Media vaticani, il Segretario di Stato card. Pietro Parolin, il fondatore della Comunità Sant’Egidio Andrea Riccardi, l’Amministratore Delegato dell’ENI Claudio Descalzi e Monica Lugato della Libera Università Maria SS. Assunta (LUMSA).

La vigilia di questo Natale segna ormai il decimo mese di guerra. L’aggressione russa resta tale, Putin non demorde. Quale modello è possibile per l’avvio di un pur timido negoziato?

In occasione della tavola rotonda romana, il Segretario di Stato card. Parolin ha rilanciato, riveduto e corretto, il modello di Helsinki: quella Conferenza sulla Sicurezza e la Cooperazione in Europa gemmata dall’atto finale siglato il 1° agosto 1975 nella capitale finlandese. Alla fine della guerra fredda, la CSCE si sarebbe trasformata in una struttura organizzata, ossia l’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (OSCE). Stranamente, tuttavia, tale organizzazione erede dello “spirito di Helsinki” è stata (deliberatamente?) depotenziata, se non emarginata dai grandi assi della diplomazia mondiale; quasi che la ratio per cui era nata (un luogo di dialogo tra blocchi contrapposti) non avesse ormai più alcuna ragion d’essere.

Eppure l’esperienza della guerra in Ucraina ci ha dimostrato che i blocchi contrapposti possono perpetuarsi o rinascere sotto altre spoglie. Appaiono allora non prive di significato le parole pronunciate dal Cardinale Parolin nella sessione di lavoro del 13 dicembre: «Siamo disponibili; credo che il Vaticano sia il terreno adatto. Abbiamo cercato di offrire possibilità di incontro con tutti e di mantenere un equilibrio. Offriamo uno spazio in cui le parti possano incontrarsi e avviare un dialogo».

Quale dialogo?

Un dialogo: su quali basi? Immediatamente si ricorre all’ipotesi di una conferenza della pace. Ma nessuna conferenza di pace ha mai posto fine a una “operazione militare speciale”. Putin non riconosce l’esistenza di uno stato di guerra. Il suo è tuttora un mondo in pace, anzi reso più sicuro dalla sua “operazione”. Per Putin non funziona il diritto di guerra, che lo obbligherebbe a pagare indennizzi e riparazioni e lo esporrebbe all’onta di un giudizio su eventuali crimini di guerra commessi dalla dirigenza del Cremlino, dai generali e dalle truppe russe. Putin non intende rispondere di tutto ciò; la sua agenda, semplicemente, ha in cima alla lista il riconoscimento delle azioni russe in Ucraina. Una condizione, questa, che ovviamente la comunità occidentale non può accettare.

Quale dialogo, dunque? Vale la pensa ricordare l’invito del “Primo Ministro” vaticano: «Torniamo a rileggere la Dichiarazione sui principi che guidano le relazioni tra gli stati partecipanti che venne inserita nell’atto finale [di Helsinki, ndA]. Un decalogo che prevedeva rispetto dei diritti inerenti alla sovranità, non ricorso alla minaccia o all’uso della forza, inviolabilità delle frontiere, integrità territoriale degli Stati, risoluzione pacifica delle controversie, non intervento negli affari interni, rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, inclusa la libertà di pensiero, coscienza, religione e credo, uguaglianza dei diritti e autodeterminazione dei popoli, cooperazione fra gli Stati, adempimento in buona fede degli obblighi di diritto internazionale […] Non ci sono le condizioni perché si ripeta quanto accaduto a Helsinki. Ma ci sono le condizioni – e se non ci sono dobbiamo lavorare affinché si realizzino – per far rivivere lo spirito di Helsinki adoperandoci con creatività. Abbiamo bisogno di affrontare questa crisi, questa guerra e le tante guerre dimenticate, con strumenti nuovi. Non possiamo leggere il presente e immaginare il futuro soltanto sulla base dei vecchi schemi, delle vecchie alleanze militari o delle colonizzazioni ideologiche ed economiche. Abbiamo bisogno di immaginare e di costruire un nuovo concetto di pace e di solidarietà internazionale, ricordandoci che tanti Paesi e tanti popoli chiedono di essere ascoltati e rappresentati. Abbiamo bisogno di realizzare nuove regole per i rapporti internazionali, che oggi ci appaiono – passatemi l’espressione – molto più “liquidi”, e dunque inconsistenti, rispetto al passato. Abbiamo bisogno di coraggio, di scommettere sulla pace e non sull’ineluttabilità della guerra; sul dialogo e sulla cooperazione, e non sulle minacce e sulle divisioni».

Sognare il presente e cambiare il futuro

Sognare, essere immaginifici e creativi. Lo aveva detto anche il Presidente Sergio Mattarella, parlando al Consiglio d’Europa il 24 aprile 2022 e citando Robert Schuman: «La pace non potrà essere salvaguardata se non con sforzi creativi, proporzionali ai pericoli che la minacciano».

Esistono le guerre-lampo, ma non esistono le “paci-lampo”. Lo sforzo creativo quindi richiede tempo, dunque dedizione. La pace è “lavorare con lentezza”, puntando alla precisione nell’analisi dei problemi e dei singoli temi in agenda. E a tal fine serve il contributo di tutti: dei governi, delle diplomazie; delle organizzazioni internazionali, governative e no; dei think-tanks, dei gruppi e movimenti pacifisti; in altre parole, serve l’aiuto di donne e uomini di buona volontà. «Questo coinvolgimento – ha sottolineato Parolin – cioè l’inclusione dei movimenti pacifisti nel lavoro di elaborazione di formule da proporre agli Stati per una nuova Helsinki, potrebbe contribuire a rinfrescare e ringiovanire quei concetti di pace e solidarietà che vengono richiamati, a volte “a gettone” e secondo le convenienze, ma dei quali oggi pochi sembrano prendersi effettivamente cura. Guardiamo perciò alla storia per imparare dalle sue lezioni, ma cerchiamo al tempo stesso di non leggere la realtà odierna con gli schemi del passato. Servono impegni e strumenti nuovi, bisogna osare di più e impegnarsi di più».

Lo “spirito di Helsinki” aleggia ancora su di noi?

Helsinki come riferimento, dunque. Ma anche un richiamo doveroso alla Carta ONU. Non a caso, per Papa Francesco la Carta delle Nazioni Unite, rispettata e applicata con trasparenza e sincerità, è un punto di riferimento obbligatorio di giustizia e un veicolo di pace. «Ma ciò esige di non mascherare intenzioni illegittime e di non porre gli interessi particolari di un Paese o di un gruppo al di sopra del bene comune mondiale. Se la norma viene considerata uno strumento a cui ricorrere quando risulta favorevole e da eludere quando non lo è, si scatenano forze incontrollabili che danneggiano gravemente le società, i più deboli, la fraternità, l’ambiente e i beni culturali, con perdite irrecuperabili per la comunità globale».

Non si vuole negare con ciò il diritto dell’aggredito a difendersi; lo stesso Catechismo della Chiesa Cattolica ammette la guerra difensiva ad alcune condizioni rigorosamente prestabilite. Ma è incombente sempre il pericolo nucleare, o dell’uso di armi chimiche e batteriologiche. Ed è un dato di fatto che il computo delle vittime civili è destinato a salire dopo ogni guerra.

Tornare allo “spirito di Helsinki”, dunque. Come abbiamo avuto modo di dire introducendo la tavola rotonda, Helsinki rappresenta «un faro della storia diplomatica. Stati europei di entrambi i blocchi concordavano su un comune futuro. Per i Paesi socialisti si trattava di veder riconosciute come immutabili le frontiere europee del dopoguerra, inclusa la divisione della Germania. Per gli occidentali si trattava di contrastare la lotta ideologica ingaggiata da Mosca. Era il primo vertice veramente paneuropeo del dopoguerra». I principi di Helsinki furono consacrati nell’Atto finale di Helsinki. E, ho osservato, «nulla hanno potuto la repressione poliziesca, il controllo delle “vite degli altri” e la minaccia di emarginazione sociale»; questo perché «i principi di Helsinki hanno fatto il loro corso. Diplomazia e società civile si erano alleate in loro difesa».

L’avvento di Mikhail Gorbaciov portò un vento nuovo: significava porre attenzione alla “dimensione umana”, e a costruire una nuova “casa comune europea”. Tutto ciò avveniva nel “quadro di Helsinki”, in quella CSCE che sarebbe poi diventata l’OSCE.

Helsinki rappresenta un lascito per il futuro? Al momento nessuno può dirlo, ma una domanda forse possiamo porcela. L’OSCE, l’organizzazione internazionale che rappresenta la continuazione della CSCE, è ormai inutile? Perché è stata depotenziata a vantaggio di altre strutture, come per esempio la NATO? Non potrebbe l’OSCE, nuovamente rafforzata, costituire una base di dialogo per il futuro? Non potrebbe essere la sede di un lungo studio volto ad assicurare una pace giusta?

Una “cattedra” laica e umana. Edith Bruck a Campobasso “città per la pace”

Dare risposta a tali quesiti richiederebbe un tempo e uno spazio di pagine qui impossibile da trovare. Si potrebbe tuttavia ricavare qualche suggestione da un altro recente incontro, al quale chi scrive ha avuto modo di dialogare sui temi attuali. Si tratta della Conferenza dedicata a Campobasso, una città della pace tenutasi il 18 dicembre presso il Circolo Sannitico del capoluogo molisano, e che ha avuto come ospite d’onore Edith Bruck, scrittrice, poetessa e testimone della Shoah.

Forti, pervasive e spiritualmente intense, le parole della Bruck. Tutto ci riguarda da vicino, nulla ci è estraneo, ha ammonito. L’uomo non ha imparato dai suoi errori; eppure, per quanto i nostri sogni possano essere svaniti, come esseri umani dobbiamo continuare a sognare. La Bruck è una testimone, che però non giudica. I giudizi sono sempre pericolosi, anche perché le parole di cui li si ammanta molto spesso servono a coprire la verità. Nulla, proprio nulla è cambiato. Ascoltando la Bruck riecheggiavano le parole di Primo Levi: la Shoah è accaduta, dunque può ancora accadere. A rafforzare questa tragica consapevolezza è il fatto che l’uomo ha deciso di vivere senza memoria. Niente è cambiato dalla seconda guerra mondiale; non è cambiata l’Italia, non è cambiata l’Europa. La comunità umana europea non ha dunque mai conosciuto una politica così fragile come quella di oggi, specialmente in Italia.

Ascoltando Edith Bruck torna alla mente l’importanza della formazione scolastica (non a caso la poetessa ha dedicato la vita nel parlare ai giovani). E si fa strada l’esigenza di ritrovare nuovi modelli di pace. Uno di questi modelli è la stessa Bruck. Una sua poesia lega insieme molti temi contemporanei. Si chiama Educazione: «E se il futuro non fosse figlio del passato e presente?/Ma orfano, tabula rasa per i nuovi nati/Da educarli al buono, al bello/al rispetto di ogni prossimo/di qualsiasi etnia e fede/Non dire mai ai propri figli/che sono i più belli/ma che tutti i bambini sono belli/Educarli a dividere a scuola durante la pausa/la propria merendina con chi non ha niente/i giocattoli di chi ne ha tanti/La condivisione fin da piccoli/è creatrice di pace/di un mondo nuovo/che non è mai esistito. Potrebbe mai essere?/Dipende solo da noi/senza pregare Dio/La responsabilità di tutti i mali del mondo/è nostra».

L’altro modello di pace è Papa Francesco, a cui Edith Bruck ha letto la poesia appena citata durante una visita del pontefice a casa della scrittrice. Le parole del Papa, risuonate nella conferenza all’Ambasciata d’Italia, e a Campobasso cinque giorni dopo (a partire dall’Enciclica Fratelli tutti), sono voce partecipe dei mali del mondo, cui l’uomo che questo mondo abita non riesce a trovare rimedi.

Senza soluzioni ci resterà solo la “vita riciclata” delle armi: quella narrata da Nelo Risi, un poeta assai caro a Edith Bruck: «Le armi hanno una loro vita/E’ di ieri la foto di quattro paia di cammelli al traino/di un carro armato zoppo tra le sabbie/contro un verde tramonto di fuoco/Seppi poi che ch’era uno Sherman che aveva fatto Napoli e Cassino/e le manovre in Sardegna della NATO/poi retrocesso a livello di piazza/tanto per contrastare il popolo/poi venduto a prezzo di rottame/a un trafficante di Pavia che lo cedette/a Nasser come nuovo/Aveva i cingoli Pirelli/e una torretta Breda più leggera/L’ultima volta è stato visto a Gaza/Gambe all’aria nel deserto/con la cupola saltata/come il coperchio di una pentola/Curiosamente era rimasta intatta/la bussola di bordo/che un casco blu dell’ONU/subito ha rivenduto a un amico/che partiva mercenario nel Katanga/dove oggi per via di un’imboscata/orna il collo di un sergente negro il quale…»

La poesia Le armi hanno una loro vita di Nelo Risi s’interrompe con i tre puntini sospensivi; come a indicare che la vita delle armi continua.

Gioverà allora trovare vie nuove, prima o poi, per impedire alle armi lunga vita.

di Matteo Luigi Napolitano