EDITORIALE

Tagliare o lasciare?

Sono tre anni che vengo a cercare frutti su questo albero di fichi, ma non ne trovo. Niente. E’ assurdo. Taglialo, ti prego, perché deve occupare terreno se non produce?. E’ meglio ricomunicare con un altro albero. Lo pianteremo, proprio qui, dove c’era questo inutile albero. Certo, è bello. Guarda quante foglie, quanto verde! Ma è sterile, non  produce. Va tagliato!”.

E’ la normale reazione di ogni padrone di una vigna dove un bell’albero di fico, che occupa molto spazio, non produce nulla. Da ben tre anni. Fa solo ombra, non frutti. Eppure questo padrone si sente rispondere dal suo contadino, con decisone e gentilezza insieme: “No, padrone. Lascialo. Mi impegno, lo zapperò con più profondità, vi metterò il concime. Lascialo e vedremo se farà frutti. Un altro anno passa subito. Vedrai che raccoglieremo frutti dolci. Se no, se proprio non raccoglieremo frutti l’anno prossimo, allora lo taglierai”.

Taglialo….lascialo! Sono le due frasi che ogni anno, a primavera, si ripetono davanti ad ogni albero. Vengono da due cuori ben diversi, da due modi di vedere opposti.

Taglialo, dice chi guarda al passato, chi solo calcola, chi ha un cuore rigido. Tanto ho fatto, ma nulla ho raccolto. Non ne vale la pena. Ho sudato, ho raccomandato a mio figlio. Ho insistito perché si impegnasse di più a scuola. Ma non ci sono frutti, ha portato a casa una pagella vuota. Ho provato a riconciliarmi con mia moglie, con cui ormai litighiamo tutti i giorni. Tempo perso. Lei non cambia, resta sempre con il suo caratteraccio. Mai un grazie. Eppure quanto sforzo ci metto. Ma lei non lo vede. E’ tutta presa dalle sue cose. E’ meglio separasi, tagliare questo legame.

Discorsi così li sentiamo tutti i giorni, nelle nostre case, davanti a problemi irrisolti. Troppe le pretese che abbiamo, perché sono sempre gli altri a dover cambiare! Perché i figli devono essere perfetti. Perché i colleghi siano più grati e rispettosi. Tagliare, allora, sembra la via più facile. Un taglio netto e (si crede!) il problema è tutto risolto.

Immaginate poi in carcere. Me lo diceva con grande cuore un nostro cappellano, don Davide, un prete giovane che studia a Roma e che la domenica celebra a Rebibbia. E’ immensa la potenza di questa paraboletta che Gesù ci ha raccontato nella terza domenica di quaresima. Tre anni persi. Anni di giovinezza in cui non hai raccolto nulla. E ti giudicano, ti calcolano. Non ci sono progressi, cambiamenti. Nessun frutto. Tagliare. Non produce. Marcisci in carcere!

Con gli occhi di chi crede nel futuro!

Lascialo! Gesù non punta sulla durezza di calcolo del padrone della vigna. Ma è attratto dalla lungimiranza e pazienza del contadino. E’ l’opposto del suo padrone. Lui lo ha lavorato quel terreno. E’ vero che non produce. Lo vede anche lui. Troppi anni senza un frutto. Eppure crede comunque nel futuro. Non guarda al passato. Non tiene conto dei fallimenti. Non fa memoria delle ingiustizie subite. Non calcola le cose storte vissute. Non ha pretese né attese, come quel marito che sceglie di andare ormai dall’avvocato, per sigillare la separazione. E’ invece come quell’educatore che guarda sempre avanti. Non si ferma alla pagella vuota. Né fa come quel parroco che, di fronte alla chiesa vuota della pandemia, conclude: non ne vale la pena…qui perdiamo tempo! Anzi, proprio poiché è ora vuota, cambia tattica. Investe di più, una catechesi migliore, un concime più raffinato. Una messa più intensa, una preghiera fatta meglio. Più tempo nelle case. Più dialogo con la gente. E se tu fai il politico, credi nel futuro, non nelle prossime elezioni, perché punti sulle prossime generazioni. Ecco perché un carcerato sente che deve puntare sul suo futuro; lì può intravedere, non nel suo passato disastroso! E’ questione di occhi: tutto dipende da dove guardi! Don Davide mi raccontava con commozione come brillavano gli occhi dei carcerati, numerosi quella mattina, nell’ascolto di questa paraboletta. Come si sentivano interpretati da Gesù, vero Maestro! Giudicati dal futuro e non appesantiti dal passato! Ed anche nella pastorale vocazionale, quante volte questa paraboletta ci ha aiutato. Ed anche nella mia vita di Vescovo, tante iniziative, poi riuscite, sono sgorgate dal mio sguardo che, dopo aver ascoltato un progetto ancora sulla carta, vi ho creduto, perché già l’avevo intravisto con gli occhi dei fichi maturi, pur se non ancora visibili.

E come si comporterebbe Giuseppe, l’uomo dei sogni?

Così credevano i santi, tutti dallo sguardo lungimirante. Ma lo è stato particolarmente san Giuseppe, nella sua vita paradigmatica. Davanti alla inattesa maternità di Maria, davanti a quel grembo gonfio di vita, preziosa ma non sua, eccolo anche lui a dire: tagliare, ripudiare, togliere di mezzo questa macchia. Certo, lo faceva segretamente, per l’immenso rispetto che aveva per la sua Sposa. Ma era sempre un ripudio, un tagliare. Il Signore però rispose alle sue intense preghiere. Gli allargò il cuore, in quella notte di disastro interiore. L’angelo lo rassicurò: Giuseppe, non temere di prendere con te Maria, tua sposa. Lei attende un dono più grande. Non tagliare, non temere! E così quel falegname divenne il Custode di Maria, la sua sposa. Cullò quel suo bambino con cuore di papà (anche se non di genitore!), lo difese con tenacia davanti alla prepotenza di Erode, come oggi la gente comune combatte Putin, per le strade di Kiev!

Questo numero del nostro giornale è lo scorrere di tanti eventi, belli e difficili, che il mese di Marzo ci ha donato. Intravedere scorge in questa paraboletta la sua forza spirituale. E sente che san Giuseppe ci insegna a credere nella speranza, contro ogni speranza, come dice Paolo (Rom 4,18).

Investire su Borghi, oggi, in tempo di spopolamento, è sempre più necessario, ma richiede di lasciare le realtà rurali. Ci chiede di non tagliare, come rischia di fare una certa facile cultura, spesso presuntuosa, da convegno, che guarda solo ai numeri, con quella cantilena tristissima: in fondo, il Molise è quanto un quartiere di Roma! Nemmeno 300.000 abitanti. Non ne vale la pena. Meglio tagliarlo.  E non pensano che anche il Canton Ticino, in Svizzera, è grande proprio come il Molise ed ha gli stessi abitanti. Ma nessuno si immaginerebbe di tagliar via il Canton Ticino, perché è piccolo! Anzi, lo si valorizza, proprio nella sua tipicità. E’ quanto deve fare la politica: valorizzare le tipicità, nell’agricoltura, nei trasporti, nel turismo, nell’industria e nella scuola! Questo è il nostro augurio, per la  Pasqua, ormai vicina: risorgere, non tagliare!

+ padre GianCarlo Bregantini