Putin, l’Ucraina e la fine del “dopo-guerra fredda“

«Condividiamo la stessa biologia, indipendentemente dall’ideologia. Spero che anche i russi amino i loro bambini». La rockstar Sting ha riproposto di recente i versi di questa sua canzone intitolata Russians per segnalare al mondo che la Guerra fredda è tornata.

In verità, a nostro avviso è finito il “dopo-guerra fredda”; ed è finito senza un idoneo sostituto. La cristallizzazione intorno a due blocchi, quello occidentale e l’altro socialista, aveva avuto perlomeno il merito di dotare le relazioni internazionali di un sistema di reciproco controllo, tacitamente condiviso tra Stati Uniti e Unione Sovietica. E sembrava condiviso anche il concetto che, dopo Hiroshima e Nagasaki, l’atomica fosse diventata un’arma stivata negli arsenali al solo scopo di non essere mai adoperata.

Ecco perché non siamo ritornati alla Guerra fredda, ma siamo in un dopo-guerra fredda in cui vi è molta incertezza

Vladimir Putin, aggredendo uno Stato membro dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, riconosciuto dalla Russia stessa con stabili relazioni diplomatiche, ha violato lo Statuto dell’ONU, il diritto internazionale e una serie di trattati su cui si reggono la coesistenza e la cooperazione internazionale. Tutte queste norme internazionali conferiscono ora all’Ucraina non solo il diritto di resistere, ma anche di chiedere un’assistenza militare esterna per riportare la situazione allo status quo ante: ossia ripristinare la sovranità e l’indipendenza dell’Ucraina, liberando il suo territorio dalla presenza russa.

Come abbiamo tutti visto, l’Europa si è mossa in blocco comminando alla Russia pesantissime sanzioni economiche. In un primo tempo Putin ha mostrato di non darsene pena, contando sulle riserve russe derivanti dalla vendita del gas. Ma poi, con l’attuazione graduale delle sanzioni, il leader russo ha reagito come un orso ferito. La ragione di ciò sta nel fatto che le sanzioni piovute sull’URSS sono strumenti finanziari avanzatissimi, in grado di provocare un terremoto sul mercati di Mosca con un battito d’ali da Wall Street.

La Russia dunque è stata isolata dall’Occidente e dai suoi mercati. L’avanzata di terra dell’esercito russo si è al momento arenata e i lanci di missili contro la popolazione civile inerme non hanno avuto l’effetto sperato, ma solo suscitato unanime indignazione.

Putin inoltre si è messo contro non solo la NATO ma anche contro altre grandi istituzioni internazionali, a partire dall’ONU nelle sue più disparate declinazioni (l’Assemblea Generale e il Consiglio di Sicurezza hanno condannato Mosca).

Quale il risultato dell’«operazione speciale militare» di Putin? Essa ha rafforzato fra gli occidentali legami che da qualche tempo erano un po’ in calo: in primo luogo i legami nella NATO e poi quelli nell’Unione Europea. Per dirla con Stewart M. Patrick, che di recente ha pubblicato un’analisi sulla Catastrofica guerra delle scelte di Putin, «Vladimir Putin ha persino fatto per l’integrazione europea più di ogni altro dai tempi di Jean Monnet».

Putin ha dunque fallito nel suo programma di annientare l’Ucraina con una guerra lampo. Ciò ha evidenziato la vacuità delle sue pretese geopolitiche e contribuito a uno sfaldamento del fronte interno, per evitare il quale ora Putin potrebbe sentirsi costretto ad andare avanti fino alla fine.

Ma di quale fine parliamo?

Putin vuole la sua vittoria di Pirro, ha scritto il Council on Foreign Relations. Vuole in altre parole rovesciare le umiliazioni subite da Mikhail Gorbaciov, che hanno ridotto la Russia a un Burkina Faso con l’atomica. Questo naturalmente ha complicato la vita a noi occidentali, che pure abbiamo non poche responsabilità per come abbiamo impostato il rapporto con la Russia post-sovietica negli ultimi trent’anni.

Il Council of Foreign Relations ha anche segnalato che tra gli effetti non previsti della guerra di Putin potrebbe esserci il deteriorarsi dell’amicizia russo-cinese, che all’inaugurazione delle Olimpiadi di Pechino sembrava eterna e salda. Infatti, al di là dell’altisonanza verbale di Pechino, gli analisti hanno registrato molta freddezza tra Putin e Xi Jinping. Perché? Perché quei principi che i cinesi considerano come i più sacri e inviolabili, ossia la sovranità e il non intervento negli affari interni di uno Stato sovrano, sono stati entrambi violati dall’aggressione di Putin all’Ucraina. Né i cinesi erano al corrente dei piani russi di attacco; al contrario, ne sono stati tenuti accuratamente all’oscuro. Ciò spiega perché al Consiglio di Sicurezza, invece essere solidale con Mosca, la Cina si è astenuta nel voto dello scorso 24 febbraio.

Va aggiunto che la guerra fredda aveva a disposizione strumenti diplomatici che gli statisti di oggi non hanno. Oggi servirebbe per esempio (mutatis mutandis) quella “diplomazia del ping-pong” di cui Henry Kissinger fu impareggiabile maestro. Occorrerebbe insomma far avvicinare Washington e Pechino proprio su quei due principi cari ai cinesi, facendo così pesare alla Russia tutti i suoi errori.

Questa copertura globale del dispotismo fallimentare di Putin potrebbe essere l’inizio della sua fine politica, qualora il popolo russo fosse messo in grado di esprimere autenticamente il suo diritto di voto.

L’Occidente, che da parte sua è colpevole di aver trascurato principi geopolitici cari sia alla Russia zarista, sia all’URSS socialista, sia infine alla Russia post-sovietica (principi che affondano le radici in forze storiche profonde), si trova ora a dover difendere, per dirla con il Council on Foreign Relations, «principi condivisi, norme e regole nella politica mondiale» che Putin vorrebbe cancellare d’un colpo solo.

Non solo noi; ma anche tutti coloro che non sono “noi l’Occidente” sono persuasi del fatto che Putin debba tornare immediatamente sui suoi passi finché è in tempo. Ciò assodato, che cosa dobbiamo fare? «Gli ideali senza il potere sono privi di significato – ha osservato Stewart Patrick – . Ma gli Stati e i loro cittadini, almeno nel mondo democratico, solo altresì motivati da un senso di obiettivi condivisi». E fra questi obiettivi ci sono la libertà dell’Ucraina e la nostra solidarietà alla sua gente, whatever it takes.

Ecco perché è quanto mai attuale l’auspicio coltivato da Sting in quella sua canzone del 1985: «Siamo fatti della stessa biologia, indipendentemente dall’ideologia. Ma ciò che può salvare me e voi, è se anche i russi amano i loro bambini».

Matteo Luigi Napolitano