LA SCUOLA E LA CHIESA

«UNA SCUOLA EDUCATIVA, RIVOLTA ALLA CITTADINANZA RESPONSABILE»

Dott. Ernesto Diaco, Responsabile Servizio Nazionale per l’insegnamento della religione cattolica

“La crisi dell’insegnamento non è una crisi dell’insegnamento; le crisi di insegnamento sono crisi di vita”. Hanno più di un secolo queste parole di Charles Peguy eppure le sentiamo ancora molto attuali. Quello che stiamo vivendo, d’altronde, è un “cambiamento d’epoca”, per usare la nota espressione di papa Francesco, non meraviglia dunque che anche il mondo dell’educazione e della scuola siano interpellati a ritrovare il proprio senso e, fra le molte cose importanti, recuperino l’essenziale.

A questo proposito, sembra talvolta che la scuola italiana si trovi costantemente a un bivio. Da una parte, la deriva (facile?) delle procedure da applicare, della burocrazia. Secondo l’ultima ricerca dell’Eurispes, la grande maggioranza degli insegnanti vede la metà e più della propria giornata lavorativa impiegata nello svolgimento di mansioni amministrative che sottraggono tempo al loro ruolo formativo. Dall’altra, la strada di una scuola dalla forte dimensione educativa, come sembra indicare l’attenzione rivolta alla personalizzazione, all’orientamento, alla cittadinanza responsabile.  Come notava Marco Rossi Doria facendo riferimento all’eredità della pandemia, “la scuola non è più solo ‘istruzione’ intesa come trasmissione lineare di conoscenze in aula sulla base di presupposti dati a monte”. Abbiamo bisogno, insomma, “di migliore istruzione legata all’educare più largamente inteso”, senza limitarci a “una risposta ‘tecnica’ e ‘organizzativa’ (spazi, banchi, controlli…) alla crisi ma a poter ‘ripensare la scuola’ nei suoi spazi, tempi, modi e nella sua missione”.

Cosa si chiede oggi a un insegnante? Tante cose, probabilmente troppe. Le attese nei loro confronti sono sempre più alte e ampie, segno di fiducia e riconoscimento di valore, ma anche del bisogno di recuperare una più diffusa corresponsabilità educativa a tutti i livelli. Se c’è un messaggio che ci proviene dalla civiltà digitale in cui siamo immersi, sempre più veloce e invasiva, è che nessuno può considerarsi autosufficiente e isolato. Questo vale anche per l’educazione. È arrivato il tempo delle sinergie e delle “alleanze” educative, per usare un termine caro a papa Francesco e che i vescovi italiani hanno posto al centro dei loro orientamenti pastorali già nel 2010. La comunità ecclesiale, infatti, è ben consapevole di non poter neppure lei bastare a se stessa e di doversi mettere a disposizione di tutti per una crescita della qualità educativa della nostra società. in un documento pubblicato proprio alla fine del lockdown del 2020, la Commissione episcopale per l’educazione cattolica, la scuola e l’università scriveva che “la Chiesa non si serve della scuola per finalità estranee ad essa, ma si ritiene sua alleata e la considera un bene primario della comunità umana. L’atteggiamento radicale che orienta l’impegno della Chiesa e dei credenti per la scuola è dunque il servizio, che si manifesta nelle forme di una dedizione attiva e creativa, di una stima sincera e di una genuina condivisione e responsabilità. La Chiesa perciò è sempre pronta a collaborare con ogni uomo di buona volontà perché la scuola sia ciò che deve essere, attuando pienamente la propria vocazione”.

Una forma di “alleanza educativa” già presente ed efficace nella scuola italiana è quella dell’Insegnamento della religione cattolica (Irc). Si tratta di un’autentica alleanza: esso infatti, oltre a trovare origine in un Patto ufficiale tra due istituzioni, lo Stato e la Chiesa, si realizza grazie alla scelta di famiglie e alunni, vedendo così convergere, in modo libero e responsabile, diversi soggetti coinvolti nel processo educativo: la scuola, la comunità ecclesiale, che è parte di quella civile, gli insegnanti, i genitori, i ragazzi e i giovani. Il tutto, non per interessi esterni, “nel quadro delle finalità della scuola”, che consistono nello sviluppo armonico e integrale della persona, all’interno dei principi della Costituzione italiana e della tradizione culturale europea, nella promozione della conoscenza e nel rispetto e nella valorizzazione delle diversità individuali, con il coinvolgimento attivo degli studenti e delle famiglie.

Sono ormai passati quarant’anni da quando, con la revisione del Concordato, l’Irc ha assunto la forma attuale. Dicono i numeri che, ogni anno, più dell’84% degli alunni e delle famiglie scelgono tale insegnamento, che è a pieno titolo parte dell’offerta formativa delle nostre scuole, in cui operano circa 25mila insegnanti di religione, con pari formazione, diritti e doveri dei loro colleghi. Ciononostante, capita ancora di ascoltare incomprensioni circa il loro ruolo – formativo e culturale, non catechistico – e l’idoneità che i vescovi diocesani rilasciano a garanzia della loro preparazione e abilità pedagogica. Obiezioni a cui rispondeva quarant’anni fa già il cardinale Carlo Maria Martini, arcivescovo di Milano, notando che “è difficile immaginare un insegnamento della religione gestito autonomamente dallo Stato, senza riferimento a concrete comunità di credenti, come la Chiesa cattolica o altre comunità religiose, nelle quali la religione non è solo un problema teorico, ma un fatto di vita”.

Certo, da allora sono cambiate molte cose. Una delle più rilevanti è la crescita del pluralismo religioso anche nel nostro Paese. In questo senso, però, il mondo in cui viviamo è ben lontano dal chiedere di espellere la dimensione religiosa da quella sociale e culturale, semmai è vero il contrario: nel percorso formativo e di crescita personale, venire a contatto con i valori, i simboli e le testimonianze storiche del patrimonio spirituale dell’umanità – a partire da quello che maggiormente segna la nostra identità – è un’opportunità formidabile. L’Irc di questo è ben consapevole, tanto che mira a introdurre i ragazzi nell’universo del fatto religioso nel suo complesso, a presentarne le tradizioni principali, in rapporto con il cristianesimo, a educare alla conoscenza reciproca e al dialogo.

Lo riconosceva il ministro Valditara, qualche settimana fa, in occasione della firma dell’Intesa con il card. Zuppi, presidente della CEI, in vista del prossimo concorso per l’immissione in ruolo degli insegnanti di religione: l’insegnamento della religione è “l’occasione per andare alle radici della nostra civiltà imparando a conoscere il messaggio cristiano. Approfondire questi temi significa fornire agli studenti gli strumenti per conoscere alcuni aspetti imprescindibili della nostra storia. Grazie a docenti motivati e competenti sarà possibile creare sempre più momenti di approfondimento e di arricchimento culturale”.

D’altra parte, il riscontro più incoraggiante proviene dai ragazzi stessi. Mentre le principali indagini sulla religiosità giovanile restituiscono dati che superano di poco il 30% circa la fede e la pratica religiosa degli adolescenti, l’Irc è frequentato da oltre il doppio dei ragazzi. Proprio loro, che si dichiarano per lo più non credenti o agnostici, non rinunciano a questo spazio di riflessione e cultura. Per quale ragione? Probabilmente perché lo percepiscono come un luogo di libertà e di confronto, in cui possono sollevare e venire affrontate tematiche che nelle altre discipline non emergerebbero.

Ciò è motivo di soddisfazione ma molto più di responsabilità e di impegno, al fine di rispondere sempre più adeguatamente ai bisogni educativi del mondo di oggi e al desiderio della scuola stessa di essere all’altezza dei suoi compiti anche in questo mondo in subbuglio e trasformazione.

Ernesto Diaco