Riflettendo sulla frase posta alla base dello stemma araldico del neo eletto Vescovo di Campobasso Bojano – “La sua Grazia in me non è stata vana” – non possiamo non riandare al contesto da cui essa è tratta.
Paolo di Tarso scrive ai cristiani di Corinto presentandosi come l’ultimo e il più piccolo degli apostoli: si ritiene perfino indegno di essere chiamato apostolo.
Il motivo lo confessa con franchezza: prima di essere toccato dalla Grazia di Cristo i suoi occhi erano stati incapaci di riconoscerlo nella carne viva del suo corpo. La luce accecante che lo aveva disarcionato da cavallo e reso di colpo cieco gli aveva donato al tempo stesso un modo nuovo di vedere, la capacità di scrutare a fondo il proprio cuore, là dove emergono i propri bisogni e le proprie attese.
La vita di Paolo ebbe da quel momento una svolta radicale, segnata dall’umile sequela di chi gli venne indicato come autorità da seguire.
È questa la cifra interpretativa che permette di intuire il modo con cui don Biagio vivrà il suo mandato episcopale: con la coscienza di essere a capo di un gregge del quale lui stesso fa parte e dal quale è stato tratto, senza merito, per esserne mite ed umile guida.
Due anni fa, nel corso di un dialogo in tempo di Avvento, aveva raccontato di come a 21 anni fosse maturata la sua vocazione: dalla scoperta di sentirsi accolto e voluto bene, semplicemente per quello che era e per come era.
Il cammino che il futuro “don” Biagio iniziò a percorrere destò la sorpresa e l’incredulità degli amici più stretti che ne conoscevano l’esuberanza e la vivacità.
Può bastare uno sguardo di predilezione per dare una svolta alla propria vita? Nella storia della salvezza è un fatto che è accaduto più volte, a cominciare dalla chiamata di Abramo. Quando il Mistero si rende presente al volto della creatura questa scopre la sua vera natura, la sua originale dipendenza. La chiamata svela anche l’altro dono ricevuto insieme alla vita, la propria libertà.
Con l’apparizione del Figlio di Dio nella carne la relazione dell’uomo con il suo Creatore prende la forma, prima inimmaginabile, di un rapporto di amicizia: Gesù è l’”uomo come noi” che si può incontrare e seguire.
Questa familiarità con il Mistero, prima nascosto da secoli, si chiama fede e la fede dona all’uomo la capacità di vedere più in profondità.
“La fede, non solo guarda a Gesù, ma guarda dal punto di vista di Gesù, con i suoi occhi: è una partecipazione al suo modo di vedere. La vita di Cristo apre uno spazio nuovo all’esperienza umana e noi vi possiamo entrare. Per permetterci di conoscerlo, accoglierlo e seguirlo, il Figlio di Dio ha assunto la nostra carne. La fede nel Figlio di Dio fatto uomo in Gesù di Nazaret non ci separa dalla realtà, ma ci permette di cogliere il suo significato più profondo, si apre un nuovo modo di vedere. Il vedere diventa sequela di Cristo, e la fede appare come un cammino dello sguardo, in cui gli occhi si abituano a vedere in profondità.” (Papa Francesco)
L’esperienza dei santi documenta che corrispondere all’amore di Cristo trasforma la vita: rende lieti e dona la speranza di poter attraversare anche i momenti più difficili e oscuri.
Come annota Charles Péguy ne Il portico del mistero della seconda virtù: “La fede va da sé. La fede cammina da sola. Per credere basta solo lasciarsi andare, basta solo guardare.” “Ma la speranza non va da sé. La speranza non va da sola. Per sperare bisogna esser molto felici, bisogna aver ottenuto, ricevuto una grande grazia.”
Lo sguardo di don Biagio è pieno di questa speranza che ha fatto di lui, come ha detto Mons. Antonio Giuseppe Caiazzo, Arcivescovo di Matera-Irsina, nel giorno in cui veniva annunciata la sua nomina episcopale “prete leale, franco, diretto, innamorato di Cristo, della Chiesa e della Madonna.”
Altri tratti che abbiamo potuto cogliere nella persona di don Biagio, soprattutto durante i lavori del primo Sinodo della nostra Chiesa diocesana, sono quelli che sempre il Vescovo ha messo in evidenza: “Deciso nell’agire e nel parlare ma docile e obbediente, senza mai conservare rancore verso nessuno anche di fronte ai torti ricevuti”.
Questa fedeltà nel seguire Cristo non dipende dalle nostre capacità ma piuttosto dal riconoscimento che, nonostante i nostri limiti, Dio rimane fedele al suo amore. Don Biagio ama ripetere che – Senza l’azione dello Spirito santo non si va da nessuna parte -. E’ la grazia dello Spirito che opera.
Lo stemma araldico di Mons. Biagio Colaianni, come è in uso per gli stemmi episcopali di nuova creazione, richiama in una sintesi simbolico-raffigurativa le origini del titolare, la sua storia, i suoi valori spirituali ed il programma del suo ministero episcopale.
Analizziamo ora nel dettaglio quanto è raffigurato nello stemma episcopale di Mons. Colaianni.
Lo scudo posto al centro dello stemma è quello sannitico, in riferimento all’antico popolo dei Sanniti che abitavano la parte centrale della penisola italica e da cui prende il nome la storica regione del Sannio corrispondente alle attuali regioni Abruzzo, Molise, Campania comprese alcune aree di Lazio, Puglia e Basilicata, regione quest’ultima che ha dato i natali al vescovo.
Lo scudo è suddiviso in tre porzioni: la porzione superiore, di colore azzurro, è caricata di tre stelle di argento; la seconda, di colore rosso, presenta due simboli: un pettine da cardatore di lana, strumento del martirio di San Biagio, ed una conchiglia d’oro, attributo iconografico per Giovanni Battista ma anche dei pellegrini alla tomba dell’apostolo Giacomo; nella terza porzione, di colore verde, appaiono tre spighe d’oro ed una torre dorata.
Il colore azzurro rappresenta il cielo e il creato; le tre stelle stanno ad indicare la perpetua verginità di Maria ma anche la devozione popolare alla Madonna della Bruna di Matera, alla Madonna della Libera di Campobasso e alla Madonna di Lourdes cui don Biagio è legato da profonda devozione.
Di qui la scelta del giorno della sua consacrazione episcopale, il 10 febbraio, vigilia della festa mariana di Nostra Signora di Lourdes.
Il colore rosso indica il mistero dell’amore di Dio, testimoniato dalla vita dei martiri Giovanni Battista, Giacomo e Biagio: i primi due titolari delle parrocchie affidate alla cura pastorale di don Biagio, il terzo essendo il santo di cui porta il nome.
Il colore verde rappresenta i «campi ubertosi» della Basilicata e del Molise con il richiamo alle spighe di grano, elementi propri dello stemma di Matera e del suo Patrono Sant’Eustachio che nella etimologia greca è «colui che produce buone spighe». Le spighe di grano rimandano anche alla designazione della Città dei Sassi come «Città del pane» in occasione del XXVII Congresso Eucaristico Nazionale celebrato a Matera nel settembre del 2022. La torre dorata è l’elemento caratterizzante lo stemma araldico della città di Campobasso.
Il motto, come si è già detto, esprime bene la persona di don Biagio, uomo che si è lasciato guidare dalla «grazia» di Dio in ogni momento: da giovane, da parroco, da rettore in seminario e da vicario generale. La presenza di Dio l’ha avvolto e penetrato così da riconoscersi in ciò che scrive l’Apostolo Paolo: «Per grazia di Dio, però, sono quello che sono, e la sua grazia in me non è stata vana. Anzi, ho faticato più di tutti loro, non io però, ma la grazia di Dio che è in me» (1Cor 15,10).
Il neo Arcivescovo metropolita della Diocesi di Campobasso-Bojano volge il suo sguardo a Maria, Madre del Grande dolore, dal titolo dell’Addolorata protettrice del Molise e pone «sotto la sua protezione» il suo ministero. La sua consacrazione episcopale nei primi vespri della memoria di Nostra Signora di Lourdes è per lui fiamma viva d’amore che indica la via da seguire: Gesù il Cristo, Figlio di Dio e di Maria di Nazareth, per essere con la stola e il grembiule a servizio degli ultimi e dei cercatori di Dio.
Erasmo Bitetti