IL VALORE DELLE ORIGINI

“I RICORDI CHE CONTANO”. SENSO E VALORE DELLE RADICI

Dicono che, per riconoscere di aver vissuto, bisognerebbe fare tre cose nella propria vita: piantare un albero, avere almeno un figlio e scrivere un libro.

Ebbene, io sono ad un buon punto: ho piantato ben due alberi, ho due figli, ma… il terzo mi manca e lo trovo anche un po’ arduo. Sono, però, testarda e non vorrei lasciare la mia vita incompleta, almeno per me.

Ho piantato gli alberi moltissimi anni fa, quando ancora a scuola veniva fatta la festa dell’albero. La migliore alunna aveva questo compito, durante la ricreazione. Nel giardino della mia scuola elementare, davanti a tutti, ho messo per ben due anni di seguito un pino in una buchetta già scavata. Il primo, piantato su un lato della scuola, ha avuto vita breve, nel giro di pochi mesi si è seccato e non è stato più sostituito. Il secondo, invece, ha avuto una vita lunghissima, ha troneggiato alla sinistra del cancello fino a qualche anno fa. Ogni volta che tornavo al mio paese, era d’obbligo andare a salutarlo e, alzando la testa per osservarne la punta, i miei pensieri tornavano all’infanzia, quando, veramente, bastava una piccola festa a scuola per farci sentire importanti. Non so perché l’abbiano tagliato, so solo che ora non c’è più, ma non c’è più neanche la scuola: è diventata un luogo di “rifugio” per gli anziani. È triste, ma potrebbe essere anche bello, pensare che una persona del luogo abbia cominciato ad imparare a leggere nel luogo in cui, purtroppo, smetterà di farlo! La cosa che mi rattrista, comunque, è vedere il mio luogo natio morire lentamente, insieme ai suoi abitanti. Come tutti i piccoli paesi del sud, non riesce a sopravvivere alla crisi. Anni fa il capo famiglia emigrava per mantenere la propria famiglia, oggi non basta più: le famiglie, ma soprattutto i giovani, vanno via. Un vecchio del paese, in una delle mie visite, ha detto una cosa giusta: “Quando in un paese chiudono la scuola elementare, è tutto finito!” Aveva ragione; io aggiungo che non piantano più neanche gli alberi.

Durante una mia breve visita al paese, ho fotografato ciò che restava del mio pino, un cerchio marrone scuro, più o meno regolare, raso terra, che si stava ricoprendo di erba. L’ho osservato tristemente e ho provato una stretta al cuore, le lacrime sono uscite spontanee dai miei occhi e ho capito che un bel capitolo della mia vita si stava chiudendo, anch’io mi sto avviando verso l’età in cui i ricordi sono dolorosi e non ho più il tempo per rinviare le cose. Mi sono anche detta di non avere più motivo per tornare davanti alla scuola. (……)

Lasciando il paese natio, avevo undici anni, non ricordo di aver provato tristezza, andavo in una città lì vicino, in una casa più bella, in un palazzo! Avrei conosciuto amici nuovi e la mia fantasia galoppava. Confesso che i primi tempi non furono malvagi, tutto era una novità per me, tutto sembrava più grande, più luminoso, più ricco.

Dopo un po’, cominciarono le mie prime insofferenze: non potevo rimanere a giocare fuori fino a tardi, non potevo vedere alcuni compagni, perché abitavano lontano, i miei genitori non mi permettevano di avere una grande vita sociale. Mia madre, visto che mio padre lavorava all’estero, non si assumeva da sola responsabilità, quindi è stata molto severa. Mi sentivo diversa dagli altri.

La stessa cosa accadeva alla mia libertà di vivere, trascorrevo molte ore del pomeriggio a casa sognando un futuro radioso e rimpiangendo i giochi all’aria aperta sulle strade del paese o in campagna a rincorrere le farfalle o a raccogliere more.

Ecco uno dei rami che si era interrotto bruscamente.

 

 

Silvana Lucarelli è nata a Castelbottaccio, un piccolo paese del Molise.

Si è laureata a Firenze, sua città attuale.

È stato proprio durante il periodo d’insegnamento,

osservando le espressioni enigmatiche dei ragazzi di fronte alla pagina bianca,

che ha scoperto il bello e il piacere della scrittura.

Si può ottenere “I racconti che contano”, in versione integrale, scrivendo alla redazione.