Lettera di Beppe Fenoglio ai posteri

UNA GUERRA CIVILE

Sono passati ormai più di cento anni dalla mia nascita, anche se quasi nessuno se ne è ricordato. In fondo sono abituato a questa indifferenza mediatica, letteraria e politica, nata durante la mia esistenza dedicata al racconto delle mie povere Langhe e della triste guerra che vi si è combattuta.

Indifferenza quando non proprio pura avversione, sorta soprattutto quando volli pubblicare i miei Racconti della guerra civile, con un titolo, appunto, che non fu accettato dall’editore Einaudi, poi cambiato nei Ventitrè giorni della città di Alba. Si riteneva che quel titolo implicasse una sorta di legittimazione della parte avversa.

Era la storia in cui la mia città di nascita, Alba, sotto il controllo delle truppe di Salò, dopo mesi di guerriglia nei dintorni, veniva prima occupata dai partigiani e poi, dopo quel piccolo numero di giorni, riconquistata dai fascisti.

La popolazione naturalmente non simpatizzava certo per le camicie nere, ma nemmeno partecipava attivamente allo scontro, concentrata sulla propria lotta per la sopravvivenza nell’ambito di una guerra dura come tutte.

E il mio amico Pavese nella Casa in collina ha altrimenti rivelato che i suoi parenti temevano sempre il sequestro di risorse e cibo da parte degli uni e degli altri ma soprattutto dei partigiani.

Anche lui ha subito una sorta di ostracismo per aver detto una scomoda verità, quella cioè che i contadini già preda di desolante miseria reagiscono male alla guerra, chiudendosi nella salvaguardia degli interessi elementari di una classe sventurata, ignorata e abbandonata già in tempo di pace.

La nostra esperienza, quella di Pavese e mia intendo dire, può insegnare tre cose fondamentali a voi che discutete tutti i giorni di guerra e di alterne ragioni senza preoccuparvi della trattativa di pace.

Credo prima di tutto di interpretare il pensiero di Cesare Pavese sottolineando che ogni conflitto è devastante soprattutto per chi ci vive o resiste o muore dentro. Non può il giudizio propinato in una comoda poltrona sostituirsi alla viva e sanguinosa percezione di un contadino ucraino. Per lui esiste soltanto il desiderio che tutto finisca, sia che abbia radici ucraine sia che abbia radici russe. Lui vede solo distruzione e propaganda, senza possibilità di scelta.

Erano i sentimenti che io e Cesare tentammo di attribuire ai nostri conterranei sottraendoli alle ricostruzioni di vinti e vincitori. La retorica della Resistenza, ripeto la retorica non il valore, ha tentato di cancellare i nostri interventi tesi a ristabilire la giusta visione dei fatti. Cosa che introduce la seconda considerazione che offro all’attenzione vostra oggi: l’invito a diffidare di qualsiasi arbitraria semplificazione o propaganda che scavalchi o parli al posto dei veri sfortunati protagonisti di questa tragedia nel cuore dell’Europa; e l’incitamento a combattere per le ragioni della pace superando la censura della stragrande maggioranza dei media nazionali e internazionali.

Infatti, e in terzo luogo, emergendo dal passato, io e Pavese possiamo far riflettere sulla considerazione che l’unico modo di promuovere una trattativa sia riconoscere o far riconoscere che quella in atto è nata otto anni fa come guerra civile.

Questo nella migliore delle ipotesi. Nella peggiore, come scontro indotto dagli interessi di alcune grandi potenze contrapposte. Ma quest’ultimo comma dovrebbe rilevare proprio per una ricerca dell’accordo da parte dell’unica entità statuale indicata, sia per l’estrema pericolosa vicinanza delle operazioni belliche che per le sue radici umanitarie: l’Unione europea.

Si è appena in tempo ancora, prima che la situazione si incancrenisca trasformandosi in un’alternanza di guerriglia e di 63 atti terroristici come nel recente passato. O peggio in un conflitto nucleare.

                                                                           Beppe Fenoglio

 

Nel caso della risposta a questo scrittore, mi vedo impegnato soprattutto come insegnante di letteratura e di storia, sempre convinto che i grandi autori siano il vero polso della credibilità di quanto affermiamo nella vita di tutti i giorni.

Essi danno spessore e valore ai nostri giudizi perché le loro opere sono utile prospettiva su qualsiasi evento del loro tempo e costruiscono la visione corretta del tempo dei loro lettori nei secoli. Questo riguarda i grandi, perché di piccoli interpreti semplici trascrittori di ideologie è pieno il mondo man mano che ci inoltriamo in epoche più vicine.

Come potrebbero essere i Pifferai di cui parlava Vittorini in un suo celebre intervento sul Politecnico, in risposta a Palmiro Togliatti che gli voleva imporre la linea dell’impegno militante.

Roberto Sacchetti