CHIAMATEMI ISMAELE

Chiamatemi Ismaele. Sono scampato al naufragio del Pequod, unico sopravvissuto, forse per potere narrare questa tragedia. Il capitano Achab, lo scoprii dopo qualche giorno di navigazione, aveva perso una gamba tentando di infiocinare Moby Dick, che navigava con tutti i suoi diritti nell’oceano. E per questo voleva vendicarsi abbattendola, incurante della sicurezza dei suoi marinai, imbarcati per sopravvivere con i proventi della caccia alle balene. Qualcuno aveva fatto notare alla sua folle sete di vendetta che l’incidente non era responsabilità di un animale che opera per istinto ma della sua ostinazione ad eliminarla. In fondo quella balena aveva il dorso pieno di fiocine scagliate in tante battaglie dalla furia dell’uomo ed era naturale che dopo tante provocazioni che tentavano di limitarne la libera circolazione nel suo mare si difendesse con le sue codate. L’ultima era stata fatale per il Pequod, per Achab, per la ciurma e per lei stessa, imprigionata dalle reti create dai mille attacchi.

Provate a immaginare ora:

Achab come uno qualsiasi dei contendenti, assetato di vendetta per le mire separatiste o la difesa dei confini.

Gli arpioni sul dorso di Moby Dick come le minacce e le esercitazioni di otto anni.

Moby Dick, la cosiddetta incarnazione del male visto dall’una o dall’altra parte, come chi invece reagisce naturalmente per difendere i suoi spazi dall’accerchiamento.

L’equipaggio come l’opinione pubblica, divisa e poi conquistata nell’una o nell’altra parte da chi fa leva sulla difesa della libertà o della sicurezza.

Il Pequod come il mondo che si inabissa nell’oceano di una folle crisi economica autoprodotta.

Il naufragio stesso come una guerra mondiale fatale, prevista, temuta, scongiurata, e infine provocata.

L’arruolamento di Nantucket come l’inconsapevole viaggio di leader o giornalisti più o meno telecomandati convinti di vivere tutt’altra esperienza che quella reale.

Il discorso di Achab per indurre l’equipaggio a seguire la sua follia come la propaganda di guerra, sceneggiata abilmente, senza alcuna cura delle vere vittime della popolazione.

La risposta decisa e contraria di Starbuck, che denuncia l’inutile vendetta contro un animale che agisce solo per istinto, come la razionale e consapevole posizione pacifista.

Le fiocine dell’ultimo scontro fatale come gli armamenti che finiscono di irretire la nave e il mostro spingendoli negli abissi.

Le codate di Moby Dick come i bombardamenti o le ritorsioni, sempre più insistenti, per impedire o consentire l’afflusso di nuovi armamenti.

Senza alcuna distinzione, vi siete comportati peggio dei miei contemporanei, costringendomi a darvi un’interpretazione nuova della mia storia. Se non cambiate rotta, tornando a navigare tranquilli in armonia con le balene, “il gran sudario del mare” tornerà a stendersi su di voi come nel mio romanzo.

                                                                                  Herman Melville    

 

Ricevo e volentieri replico a Melville:

Ammesso pure che uno dei due protagonisti sia un pazzo criminale sanguinario senza altra motivazione che l’odio, circostanza che sarebbe confermata dai tanti indizi di questo seminati con cura dall’altra parte (e chi siamo noi per escluderlo), a che vale armarsi sempre più? Anzi, la prospettiva di perdere lo indurrebbe a propositi sempre più insani, soprattutto sapendo che in caso di sconfitta si aprirebbero le porte di un processo per crimini di guerra. Allora, quante strade bisogna percorrere per convincerci che le armi sono solo massacro, comunque invocate per cacciare i mostri? E che anche la pressione delle sanzioni indurisce i giusti, figuriamoci i pazzi scatenati? La risposta soffia nel vento…     

Chi può dare la risposta giusta? In tanta esaltata durezza forse resta da sperare in una sola delle radici dell’umanità. L’ultima a cui fare appello. Lei. “La pace è donna, nasce dalla tenerezza delle madri” (dice Bergoglio). E ha piena ragione. Quella tenerezza che accoglie e incontra l’altro è l’unica speranza di pace e armonia. Perché tra l’altro trascuriamo l’inevitabile difficoltà dei postumi di un conflitto portato alle sue estreme conseguenze. Non mi riferisco alla minaccia nucleare ma all’odio tra i popoli coinvolti in questa follia.

Roberto Sacchetti