Il filo conduttore che lega don Pino Puglisi e don Peppe Diana

Don Pino Puglisi e don Peppe Diana li ho sempre considerati preti che, fin dall’ordinazione sacerdotale, si sono immediatamente “sporcati le mani” combattendo a viso aperto le mafie e la mafiosità. Don Peppe nella sua Casal di Principe e don Pino nella sua Palermo. Furono ammazzati, tra l’altro, dai killer più pericolosi di quegli anni, perché erano riusciti a creare un’alternativa per i giovani delle loro comunità, una proposta di vita antitetica a quella mafiosa. Hanno insegnato e continuano a insegnare che la legge del più forte alla lunga non vince, hanno predicato il dialogo, l’impegno civile, il confronto contro la cultura mafiosa della violenza e del sopruso. Hanno avuto il coraggio di minare e riuscire a sconfiggere il prevalere della cultura mafiosa. 

Non tacere e agire

Ci lasciano entrambi una grande eredità. “Per amore del mio popolo non tacerò” era il simbolo della lotta contro l’omertà, che per don Peppe Diana era un vero credo. ”Se ognuno fa qualcosa, allora si può fare molto” era invece il simbolo dell’impegno individuale e sociale, che per don Pino Puglisi significava agire e non solo predicare. Due formidabili esempi, vivi in tantissime persone che li conobbero, li frequentarono, li videro all’opera contro un mostro molto più grande di loro: la mafia. Di entrambi mi ha sempre colpito non solo l’impegno ma anche la loro imbattibile capacità di ascolto che riservavano a chiunque volesse confrontarsi con loro o chiedesse il loro aiuto. Credevano entrambi in una Chiesa impegnata in prima linea, viva e attiva ad aiutare i più deboli e le vittime più giovani delle mafie e della mafiosità. 

Un modello educativo contro le mafie

Don Pino Puglisi e don Peppe Diana sono stati unici nel loro genere e sempre alternativi alla cultura mafiosa dominante nei loro territori, in primis con il loro esempio. Avevano un loro modo di agire e di educare del tutto alternativo al modello educativo mafioso basato sulla violenza e sulla prevaricazione. Le mafie hanno bisogno dei giovani per sopravvivere e quindi utilizzano il proprio metodo educativo per creare generazioni anaffettive e anestetizzate di sentimenti ed emozioni che vivano solo il modello mafioso violento. I due sacerdoti invece hanno testimoniato che l’alternativa c’è ed è possibile: il chiedere scusa, il dire grazie, il dialogo, il confronto civile, l’amicizia, il vivere la legalità. Ai bambini, ai giovani hanno proposto questo modello e sono riusciti a mettere le mafie con le spalle al muro. Le loro vite sono state un percorso di educazione perché per loro c’era un nesso tra educazione, cittadinanza e partecipazione. Questo va insegnato alle nuove generazioni e questo hanno fatto loro. Hanno cercato di farlo fino al giorno prima di essere stati brutalmente assassinati delle mafie. 

Il volto umano di Gesù

Hanno aiutato i ragazzi abbandonati da tutti e da tutto, facendo incontrare loro il volto umano di Gesù, facendo loro comprendere il “vero” senso della vita. Non è importante, infatti, come si prega Dio, ma come si pensa e soprattutto come si vive nella vita reale il sacerdozio al servizio dei più deboli. Questo è il messaggio più bello che di loro mi piace ricordare e che vorrei rimanesse scolpito nella mente della nostra gioventù.  

Vincenzo Musacchio – Criminologo