IL PIANO E L'AGRICOLTURA

IL PNRR NELLA PROSPETTIVA DEI CONTESTI RURALI

La recente approvazione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), se osservata nella prospettiva di una piccola regione rurale come il Molise, induce inesorabilmente ad interrogarsi sul ruolo assegnato dal PNRR all’agricoltura, se lo stesso offra nuove opportunità di rigenerazione territoriale alle aree rurali e, soprattutto, se tale strumento abbia effettivamente la capacità di accelerare la ripresa economica, demografica e sociale dell’intera regione.

Sebbene, come ha evidenziato Coldiretti, la parola “agricoltura” ricorra nel PNRR per ben 62 volte (e 242 volte la parola “territorio”), l’aggettivo “rurale” compare invece soltanto 17 volte, rivelando forse, come ha osservato Slow Food, un approccio eminentemente produttivista del Piano.

Un modello di sviluppo più globale

Pur ritenendo condivisibile l’opportunità di un ripensamento più complessivo del modello di sviluppo, come evocato da più parti, va osservato che la crisi economica conseguente alla pandemia impone misure anticicliche urgenti ed energiche, incompatibili con i tempi necessari alle più radicali trasformazioni economiche, culturali e sociali, sottese ad un cambio di paradigma.

Il PNRR sembrerebbe comunque orientato al benessere equo e sostenibile, piuttosto che alla mera crescita economica, accogliendo sostanzialmente tutte le sfide globali di Agenda 2030, che il nostro paese ha appena cominciato ad affrontare nell’ambito della cosiddetta “transizione ecologica”. Per l’agricoltura, pertanto, buona parte delle risorse del PNRR risulta indirizzata alle energie rinnovabili e alla gestione sostenibile della risorsa idrica, da attivare attraverso contratti di filiera, potenzialmente capaci di stimolare l’innovazione tecnologica e organizzativa delle imprese.

L’impostazione generale del Piano resta tuttavia fossilizzata sulle questioni dell’ecoefficienza, ovvero sulla ricerca di correttivi dell’esistente, piuttosto che su una più radicale riorganizzazione dei processi produttivi (nonché sociali e culturali) in chiave ecologica (“ecoefficacia”), che per l’agricoltura si sarebbe potuta tradurre in una coraggiosa svolta agroecologica.

Puntare su una audace svolta agroecologica 

L’agroecologia, come è noto, si riferisce ad una diversa visione dell’agricoltura, fondata sull’organizzazione e sul potenziamento dei sistemi agroalimentari territoriali basati sulla (ri-)costruzione delle reti sociali locali. Tale approccio può offrire, soprattutto nelle aree interne, maggiori opportunità per proiettare i sistemi agro-alimentari delle stesse verso più ambiziosi traguardi, non solo ecologici, ma anche economici e sociali, utilizzando un approccio transdisciplinare e partecipativo, capace di coniugare le nuove istanze sociali con le pratiche agricole e il sapere scientifico.

L’agroecologia, infatti, a differenza dell’agricoltura convenzionale, non avendo necessità di aumentare i volumi produttivi per sfruttare i rendimenti di scala per fini competitivi, può sperimentare nuove formule di agricoltura ricorrendo al prezioso patrimonio di conoscenze del mondo contadino, costituito oltre che da un ricchissimo catalogo di risorse genetiche, anche da un considerevole bagaglio di saperi taciti, fondati sulla condivisione di solidi valori comunitari, posti alla base di ogni identità territoriale. Tali specificità locali rendono uniche e infungibili le rispettive produzioni agro-alimentari, costituendo un potente vantaggio competitivo sui mercati non convenzionali o alternativi (alternative food network).

La svolta agroecologica consentirebbe dunque una progressiva emancipazione dalle commodities, offrendo al contempo un’efficace risposta al pernicioso fenomeno dello squeeze – ovvero la lenta e progressiva riduzione dei redditi agricoli determinata dalla contemporanea riduzione dei prezzi dei prodotti finali e dall’aumento dei costi della produzione – che va ulteriormente aggravandosi per via dell’aumento dei prezzi delle materie prime, indotto proprio, paradossalmente, dalla nuova economia e dalle politiche anticicliche.

Più attenzione del programma alle aree interne

L’attenzione che il Programma riserva alle aree interne non appare quindi esauriente, sebbene proprio la pandemia avesse evidenziato l’importanza e il valore strategico delle stesse. Tuttavia, sarà la visione delle Regioni nella fase di implementazione del PNRR a fare la differenza, soprattutto se la stessa risulterà dalla virtuosa integrazione del Piano con la nuova programmazione dei fondi strutturali europei – in modo particolare del Fondo Europeo Agricolo per lo Sviluppo Rurale (FEASR) – e con l’esecuzione delle azioni previste nell’ambito delle politiche nazionali di sviluppo territoriale, quali la Strategia Nazionale per le Aree Interne (SNAI) e i Contratti Istituzionali di Sviluppo (CIS).

L’auspicio è quindi che, pur nell’ambito dei molteplici vincoli imposti dall’Europa nella destinazione delle risorse del PNRR, vi sia la sensibilità di individuare formule di investimento o soluzioni programmatiche capaci di accogliere le legittime attese di sopravvivenza anche delle più piccole comunità della regione, attribuendo sia maggiore centralità al settore agroalimentare, sia sostenendo le aziende agricole nel delicato processo di differenziazione e diversificazione produttiva, puntando inoltre sulla rigenerazione demografica e sociale dei piccoli borghi, anche attraverso la valorizzazione del patrimonio culturale (materiale e immateriale) degli stessi, mediante la formidabile leva del turismo lento ed esperienziale.

Angelo Belliggiano

economista agrario, Università del Molise