LA RASSEGNA CINEMATOGRAFICA CHE ILLUMINA IL GIUBILEO

LUCE NELLA NOTTE

Un percorso di fede, cultura e speranza attraverso sette film che raccontano l’uomo e la sua ricerca del bene

L’uomo è la nostra speranza. Quello che in lui resiste di umano, libero dalle incrostazioni che nel tempo e secondo le circostanze lo hanno ricoperto e bruttato. È questo il motivo che ispira l’iniziativa di una rassegna cinematografica proposta dall’Ufficio diocesano per la Pastorale della Cultura dell’Arcidiocesi di Campobasso- Bojano, in collaborazione con le associazioni “Sciuscà” e “Sopraitetti”. La rassegna si rifà all’intervento di Papa Francesco che ha collocato la speranza al centro degli sviluppi drammatici della nostra epoca.

Si auspica che il peggiore dei mondi possibili, degno delle vicissitudini del Candido di Voltaire, si riveli la difficile aurora di una comunità rivolta al bene, ma soprattutto all’amore per i nostri simili.

A questo amore e a questa speranza si riconduce la serie di proiezioni largamente informate alla relativa tematica, al di là delle differenti situazioni affrontate, con un’adesione e un dibattito che hanno rafforzato l’immagine di una Curia attenta alla promozione culturale e sociale del territorio.

Si è trattato appunto di una LUCE NELLA NOTTE, come dice il titolo della rassegna, sia per i contenuti delle pellicole scelte, sia per il contatto vivo con la nostra comunità in un contesto di rassegnata e sconfortata visione di un altro film, quello della realtà che ci circonda, a livello locale e internazionale.

Il 30 ottobre ha aperto la rassegna il primo di sette film, Uomini di Dio, di Xavier Beauvois, del 2010. Racconta la storia di otto monaci che vivono in Algeria in armonia con i musulmani del villaggio, prestando aiuto medico e farmacologico, fino a quando l’arrivo dei terroristi sconvolge quell’ideale accordo. Avrebbero la possibilità di tornare in patria, ma decidono di rimanere, con tutti i rischi connessi, per non abbandonare quella gente che dipende dal loro aiuto. Pagheranno con la vita la loro scelta coraggiosa. La trama, ispirata a un fatto veramente accaduto, richiama la situazione del famoso Mission, in cui il protagonista resta fedele fino all’ultimo alla comunità amazzonica a cui si è dedicato, condividendone stenti e idealità. In quest’ultimo caso la minaccia viene dai cinici colonizzatori portoghesi anziché dai fanatici dell’Islam.

La seconda serata, il 6 novembre, prevedeva la proiezione de Il pranzo di Babette, di Gabriel Axel, film danese del 1987, imperniato sulla storia di una donna che, fuggendo dalla repressione seguita in Francia alla breve esperienza rivoluzionaria della Comune, nella primavera del 1871, viene ospitata in un ambiente protestante, presso due sorelle ispirate da rigore morale e volontà di aiutare i poveri del luogo. La nuova arrivata, dopo una fortuita vincita al gioco, attratta dall’atmosfera caritatevole che la circonda, decide di offrire a sue spese un pranzo memorabile che possa soddisfare i convenuti e gratificare e promuovere la nobile attività da lei osservata. Soltanto al termine, raccogliendo l’occasione datale da un invitato che dichiara quel pranzo degno dell’opera di una famosa cuoca del Café Anglais, conosciuta anni addietro, rivelerà di essere proprio lei quella persona. Un esempio ammirevole di umile amore per il prossimo.

Il terzo appuntamento, il 13 novembre, è dedicato a Solo cose belle, di Kristian Gianfreda, commedia del 2019, che ambienta in Romagna la storia di una ragazza, figlia del locale sindaco, che evade dalla vita comoda del suo ambiente per approdare casualmente in una casa famiglia presso la quale sperimenta l’autenticità che si accompagna a un’esistenza priva di risorse, da emarginati. Questo nuovo osservatorio le rivelerà il più profondo motivo per cui rifiutava istintivamente la condizione di tranquillità borghese in cui era immersa. La formazione civile della protagonista porta a riflettere sulla scena esclusa e ignorata dei diversi e dei deboli, ricordandoci la necessità di un impegno fattivo in favore dell’inserimento da offrire a tutte le vite disperse. E alimenta anche la distinzione tra una simile esperienza e quella dei numerosi centri sociali che invece deragliano in direzione di odio e contestazione spesso incivile.

Il 20 novembre è la volta di Mi piace lavorare, di Francesca Comencini, vincitore al Festival di Berlino nell’anno di uscita, il 2003. Si tratta di una grande metafora complessiva costruita su un anche improbabile mobbing per riassumere tutto quello che una multinazionale può imporre a un lavoratore, concentrata in un cinico interesse economico. Interessante il dibattito su un film che, nella sua decisa estremizzazione, con l’articolazione nelle più disparate forme di sfruttamento e umiliazione di un dipendente, pure è riuscito a convincere la giuria di Berlino. Forse per istintiva, incondizionata e ideale solidarietà con il mondo dei lavoratori; o per la pur consapevole considerazione che si tratta appunto, come proponevamo prima, di una “summa” dimostrativa dei vari problemi che si affacciano nell’universo del lavoro in presenza di atteggiamenti poco rispettosi dell’umanità.

Al termine della prima fase, la riflessione comune, al di là dei temi particolari individuati da ciascun film — il servizio, la generosità, l’attenzione per i deboli, la difesa del lavoro —, emerge, con la speranza di un mondo migliore di cui abbiamo già parlato, l’immagine che lo rende possibile, sottesa nella mite donazione di sé e nella resistenza della seconda coppia, quella di un Cristo tornato a vivere per imporre con noi il bene sul male.

Parleremo degli altri tre film della rassegna nel prossimo numero della nostra rivista.

Roberto Sacchetti