
Sfogliare le pagine della storia del Concilio Vaticano II fa bene alla vita della Chiesa. In questo mese di novembre ricorre il sessantesimo anniversario della promulgazione del decreto conciliare sull’apostolato dei laici, Apostolicam Actuositatem. Il Decreto porta la firma di Paolo VI. Dalle cronache sappiamo che fu approvato da 2342 Padri votanti, proprio il 18 novembre del 1965, con 2340 voti a favore e 2 soli voti contrari. È il primo documento che affronta esplicitamente la vocazione dei laici e approfondisce la formazione all’apostolato, indicando i fini, i vari campi e le molteplici forme dove questa missione secolare, scaturita dal battesimo, si traduce in attiva e personale partecipazione al Munus Christi, un innesto delle forze umane nel potere divino. In quest’ottica i Padri conciliari delinearono la grande importanza del mandato conferito a ogni persona, come troviamo riportato nel Libro degli Atti degli Apostoli: “Riceverete potenza quando lo Spirito Santo verrà su voi, e mi sarete testimoni … all’estremità della terra” (cfr At 1,8). E qui sta il punto sostanziale: è lo Spirito che abilita all’apostolato. È in forza dei doni dello Spirito che si può arrivare a orientare e ad arricchire con vitalità evangelica le realtà temporali, secondo Verità, Giustizia e Carità. Ciascuno, nella quotidianità, è chiamato a fare propria l’actuositas apostolica, secondo cioè la specifica luce interiore che possiede e che alimenta. Circa la responsabilità ecclesiale inalienabile dell’apostolato all’interno della comunità cristiana, è fondamentale ribadire che al centro deve necessariamente restare acceso il fuoco che perfeziona la forza e il valore della vocazione dell’uomo sulla terra.
Le direttive esposte dal decreto sono in fondo due: costruire tutto l’ordine temporale e ordinarlo a Dio per mezzo di Cristo. Sappiamo che l’ordine delle realtà temporali comprende le sfere culturali, sociali, politiche, economiche, educative, la scienza e la tecnica, la loro evoluzione e il loro progresso.
In merito all’attuazione di questa animazione evangelica è opportuno ricordare che la testimonianza cristiana è prima di tutto un atto di gratitudine verso Dio.
Ecco perché all’elenco dei vizi capitali della Tradizione Cristiana occorre forse aggiungere altri tre. Nella lista di quelli più noti sono da introdurre ovviamente anche l’indifferenza, l’apparire, ma più di tutti l’ingratitudine. Altri tre disfacimenti interiori, che spesso si tramutano in abissi morali, dai quali emergono altre forme di peccato. La tirannia di questi vizi deturpa il volto della vita, del mondo. Si diffonde come ombra soffocante in ogni rapporto, in ogni ambiente, fino ad ammalare l’anima e le relazioni, privandole di valore. Perché, in fondo, l’intento del male è quello di rubare la pace, l’armonia e il sorriso. Ma perché l’ingratitudine è da annoverare tra i mali peggiori?
La riflessione ci porta inevitabilmente a riprendere in mano il Vangelo e in particolare un brano di Luca, raccontato proprio esclusivamente da lui per sottolineare come la riconoscenza sia importante, alla pari di una vera e propria gioiosa restituzione d’amore per un atto d’amore ricevuto. L’episodio è quello dei dieci lebbrosi. Tutti e dieci sono stati purificati da Gesù, ma uno solo torna indietro a ringraziare. È un’immagine tremenda, così spesso purtroppo reale e vicina. Diceva Papa Francesco che un cristiano che non sa ringraziare è uno che ha dimenticato la lingua di Dio. Ma se esaminiamo un po’ più a fondo la questione, forse è il caso di dire che forse quella lingua o non l’ha mai adoperata o forse non l’ha nemmeno mai acquisita… Ringraziare invece è l’azione di chi interiormente è limpido, slanciato verso l’altro con animo puro perché riconosce tutto come un dono.
Ringraziare è purificare! E che cosa, se non il cuore, la mente, il cosmo, la società dai veleni come l’insolenza, l’arroganza, l’irriconoscenza! La purificazione di conseguenza è un combattimento interiore necessario per mantenerci integri in mezzo e davanti alle insidie della corruzione. È importante quello che diceva a riguardo l’abate benedettino del XII secolo, Ruperto di Deutz: “Dolce lotta, più gradita di qualsiasi pace”. Lottare interiormente con la preghiera, assimilandoci al cuore di Cristo, mediante il dono dell’Eucaristia, perché tutta la vita diventi un canto di lode alla divina Magnificenza, a Colui che chiamiamo “Padre Provvidente”.
Mai voltare le spalle al Donatore, perché significherebbe calpestare gli stessi doni ricevuti, chiuderci alla Grazia che ci trae dal nulla della nostra piccolezza e non comprendere cioè quell’amore munifico che li precede. Beviamo piuttosto con gioia a questa fonte di Gratuità eccedente per ricordare, adorare e celebrare le Sue meraviglie.
Il ringraziamento è uno stile di vita! Chi dimentica il bene ricevuto è perché dentro di sé coltiva l’erba cattiva della superbia. Un detto antico dice, infatti, che: “Non ringraziare è condannarsi alla fame”.
Il nove di novembre abbiamo celebrato la 75ª Giornata del Ringraziamento per i frutti della terra. Il ringraziamento ravvicina il cuore dell’uomo al cuore di Dio. È una necessità morale e spirituale rispondere alle opere e all’abbondanza della Sua Grazia.
Ringraziare non è dire solo “grazie”! È un impegno di responsabilità a custodire la natura, a coltivare in maniera sostenibile, a fare di ogni luogo uno spazio di cura e di bellezza diffusa, fruibile, attrattiva. Dove le microimprese sono tutelate e sostenute con politiche mirate, perché, per un territorio come il nostro, ogni azienda è un vero patrimonio affacciato sul futuro. Ciascuno, nel piccolo, può aiutarle a restare aperte, valorizzando i prodotti, le tradizioni sotto l’aspetto economico e quello culturale e identitario. È questo il modo per dire grazie a coltivatori e allevatori, a ogni imprenditore agricolo, che fa germogliare dalla terra, con il lavoro delle proprie mani, prodotti di qualità. Ricordarlo ci rende più uniti, oltre che fortemente grati. I nove lebbrosi che non tornano a ringraziare sono simbolo di chi non ha vinto la malattia interiore dell’avidità, della meschinità.
Se in forza del battesimo non manifestiamo un’inesorabile ed inequivocabile coerenza di fede e di vita, chiamata eucaristia esistenziale, se non sprigioniamo dal nostro profondo la luce di Cristo, allora non incideremo! I discepoli non testimoniano per ottenere la salvezza, ma perché sanno di essere stati salvati! Questa è la motivazione spirituale che cambierà il volto dell’agorà sociale.
Ylenia Fiorenza



