RIFLESSIONI SULLA SOLENNITÀ DI TUTTI I SANTI

LA FELICITÀ SECONDO LE BEATITUDINI

Scoprire la santità nella fragilità e nell’amore quotidiano

Quali sono le condizioni per essere felici?

 Il  Vangelo della festa di Tutti i Santi è quello delle Beatitudini, un testo che elenca otto affermazioni contrarie alla saggezza convenzionale. Infatti, tutti pensiamo che la ricchezza, l’appagamento dei propri bisogni e la garanzia dei propri diritti siano condizioni minime per essere felici.

Tuttavia, per quanto queste cose possano essere lecite e umanamente valide, raramente coincidono con l’amore. Quando si ama, si accetta di perdere qualcosa di sé. Quando si ama, si versano lacrime. Quando si ama, si vive di misericordia, senza la quale non c’è pace nella nostra vita.

La solennità di Tutti i Santi, allora, non ci parla di una felicità lontana, a beneficio di pochi eletti, ma di una felicità accessibile a tutti gli uomini. L’Apocalisse, nella prima lettura, parla di 144 mila uomini e donne segnati con il sigillo della croce: un numero che non indica una minoranza, ma l’universalità (12×12) moltiplicata per la pienezza (mille).

L’errore che spesso commettiamo è quello di subordinare la felicità a una condizione futura che ci apparirà insoddisfacente nel momento stesso in cui l’avremo raggiunta. Analogamente, crediamo che il nostro passato, le cose che ci sono accadute, gli errori e persino il peccato abbiano il potere di compromettere definitivamente l’esito della nostra vita.  Pensiamo, in fondo, di essere noi i padroni dell’esistenza e ci frustriamo nel momento in cui povertà, tristezza e ingiustizia rompono il nostro schema.

Gesù, invece, rivela che la “beatitudine”, la felicità reale, comincia proprio da qui: dall’accogliere la nostra povertà. Il nostro essere fragili, contraddittori, segnati dal limite non sono condizioni che ostacolano la felicità, ma il punto di partenza perché la nostra esistenza sia immersa nell’amore del Padre. Paradossalmente, la fisionomia di figli di Dio ci viene proprio attraverso la quotidiana e silenziosa rinuncia alla perfezione, con la quale ci si abbandona a un progetto di vita non nostro.

Dobbiamo allora correggere il nostro concetto di santità. La santità non è il frutto dei nostri sforzi. Santi sono tutti quegli uomini e quelle donne che, scoprendo un vuoto nella loro vita, non l’hanno riempito con surrogati di poco conto, ma hanno lasciato che quel vuoto diventi “feritoia di luce”. Quel vuoto, quella ferita, è prezioso perché è lo spazio dove Dio ci incontra e ci chiama alla santità.

San Giovanni Maria Vianney, da giovane, fu arruolato nell’esercito napoleonico. Combattuto interiormente e temendo di morire al fronte, disertò; al suo posto partì il fratello minore, che cadde in guerra. Il nostro santo non poteva fingere che quel fratello non fosse morto per colpa sua, ma lasciò che il perdono di Dio traesse qualcosa dalla sua paura. E proprio a partire da quella paura abbiamo una delle pagine più belle di santità sacerdotale.

La festa di Tutti i Santi ci aiuta anche a ricordare i santi “anonimi”: i nostri familiari, i nostri amici, coloro che ci hanno preceduto nella fede. Possiamo immaginarli tra i 144 mila. Nel banchetto del Regno contemplano lo stesso Signore che noi celebriamo nell’Eucaristia: siamo commensali della stessa mensa, e in Lui i nostri sguardi continuano a incontrarsi.

Chiediamo allora la grazia di scegliere l’amore, cioè la santità, mettendoci in discussione e alleggerendo la nostra vita più che appesantendola. Perché la felicità non sia l’obiettivo irraggiungibile di domani, ma la gioia di ogni giorno.

Quando rinunciamo alla nostra perfezione, quando smettiamo di vivere ripiegati su noi stessi e camminiamo nell’amore, la felicità diventa qualcosa di sorprendentemente accessibile.

Don Gregory Pavone