LE PAROLE DELLA FEDE

AGÀPE: AMORE

Dopo aver condotto a termine, nel numero precedente della nostra rivista, il percorso – necessariamente a carattere divulgativo – sul rapporto tra Giubileo e letteratura in chiave essenzialmente storica, a partire da questo numero “estivo” abbiamo pensato di mutare in qualche modo l’orizzonte della nostra ricerca, pur rimanendo fedeli a quell’ambito, storico e letterario insieme, che da sempre caratterizza i confini delle nostre ricerche. In tal senso ci siamo chiesti: perché non offrire ai nostri lettori l’opportunità di riflettere su alcuni termini che, da sempre, costituiscono la base della nostra fede e del nostro essere credenti? Parole che, magari, siamo soliti pronunciare o ascoltare fin da quando abbiamo ricevuto i primi sacramenti ma di cui poi, probabilmente, forse anche per pigrizia spirituale o per malsana abitudine, abbiamo smarrito (o corso almeno il rischio di smarrire) il vero senso. Con il risultato, che è oramai sotto gli occhi di tutti, di rendere la nostra testimonianza cristiana sempre meno credibile agli occhi degli uomini e delle donne del nostro tempo, convinti come si è per lo più – ahimé – che l’adesione reale al messaggio di Cristo sia da ridurre ad un ambito esclusivamente intimistico, arricchito qua e là, perché no, magari da qualche segno esteriore di devozione in grado di non far venire meno del tutto un patrimonio antico ricevuto in eredità.

Il primo sostantivo sul quale vogliamo porre la nostra attenzione è, per certi versi, quello fondante lo stesso messaggio essenziale predicato da Gesù: è la parola “amore (in greco ὰγάπη [agàpe]): termine non raramente soggetto a facili fraintendimenti o strumentalizzazioni. È interessante in proposito evidenziare come nel Nuovo Testamento la radice del termine greco che indica l’amore, agápe, risuoni ben 320 volte (116 volte come sostantivo, 143 come verbo e 61 come aggettivo). Siamo, quindi, in presenza di una categoria ideale fondamentale. Contrariamente a quanto generalmente si pensa, essa attinge la sua realtà già nell’Antico Testamento, come ricorda del resto Gesù a quel maestro della Legge che lo interroga sul “primo di tutti i comandamenti”: la risposta è in quell’ “Amerai il Signore Dio tuo … e amerai il prossimo tuo” che, come noto, è la citazione di due passi biblici (Marco 12, 29-31; Deuteronomio 6, 4-5; Levitico 19,18).

La voce di Mosè e quella di Cristo parlano, dunque, all’unisono e ad essi si unirà anche l’apostolo Paolo con la stessa proposta (Romani 13, 9-10). Nella lingua ebraica il termine che meglio riflette questo amore divino e umano insieme è hèsed: esso esprime la gamma variegata di sentimenti e di impegni che intercorrono tra due persone legate da un’alleanza d’amore. Dio, secondo quanto si legge nel libro della Sapienza, “ama tutte le realtà che esistono ed è il Signore amante della vita” (11, 24.26). La sua è una rivelazione d’amore: “Ti ho amato di amore eterno, per questo ti conservo il mio hèsed”, vale a dire il mio amore fedele, dice il Signore a Israele (Geremia 31,3).

Il cristianesimo, dal canto suo, raccoglie questa rivelazione della Prima Alleanza giungendo a coniare addirittura una straordinaria definizione: “Dio è amore” (cf 1Giovanni 4, 8.16). La stessa missione di Cristo è quella di rivelare che “Dio ha tanto amato il mondo da donare il suo Figlio unigenito” (Giovanni 3,16); e infatti egli “passò facendo del bene e risanando tutti i sofferenti” (Atti degli apostoli 10,38). A questo amore divino, che non ignora la giustizia come segno della verità dell’amore, deve corrispondere il nostro amore: “Se Dio ci ha amati, anche noi dobbiamo amarci […]. Se ci amiamo, Dio dimora in noi e il suo amore è perfetto in noi” (1Giovanni 4, 11-12).

Ora, due sono le dimensioni fondamentali di questo amore, come raccomandava Gesù allo scriba citato in precedenza. Esso ha necessità innanzitutto di orientarsi verso Dio padre, accogliendo la sua parola e la sua legge. “Ti amo, Signore, mia forza” (Salmo 18,2): può essere questa la comune professione d’amore dell’ebreo e del credente cristiano, e il Cantico dei cantici oppure la storia del profeta Osea (capitoli 1-3) rappresentano la parabola simbolica di questo amore che conosce l’intimità, ma anche il tempo della prova e del nostro tradimento. L’amore d’altro canto deve, in un secondo momento, proiettarsi verso i fratelli e ciò a noi è particolarmente noto attraverso la raccomandazione giovannea: “Questo è il comandamento che abbiamo da lui: chi ama Dio, ami anche il suo fratello” (1Giovanni 4,21). Cristo spingerà il comandamento biblico antico fino alle sue estreme conseguenze, portando l’amore verso la vetta suprema del perdono del nemico e della donazione di sé: “Non c’è amore più grande di colui che dà la vita per la persona che ama” (Giovanni 15,13). Questa forma di generosità, che si estende in modo particolare verso gli ultimi, i poveri e i sofferenti, costituirà l’argomento decisivo del giudizio divino sull’umanità alla fine della storia, perché – dirà il Cristo giudice – “tutto  quello che avete fatto a questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (Matteo 25,40).

Abbiamo iniziato questo contributo richiamandoci alla parola greca agàpe, tipica del Nuovo Testamento (la lingua greca classica preferiva, come gran parte dei nostri lettori forse sanno, il vocabolo éros), concludiamo a questo punto con il termine “amore”. Esso deriva da una radice di origine indoeuropea kam, che significa “amare” e “volere” / “desiderare”. Nel sanscrito, lingua anch’essa indoeuropea originaria dell’India, considerato un idioma sacro in quanto la lingua dei testi sacri induisti, come i Veda, il nostro “ti amo” si dice kamani, e in persiano hamana. In latino infine, oltre ad amo, c’è anche diligo (infinito diligere), alquanto suggestivo nel suo valore di base: io “scelgo” te. È facilmente comprensibile, da questi pur brevi richiami di natura sia linguistica sia biblica, come l’idea sottesa al verbo “amare” ed al connesso sostantivo “amore” abbia potuto attraversare in lungo e in largo le civiltà dei popoli arricchendosi, ora in un modo ora in un altro, dei contributi propri del pensiero e della tradizione religiosa di ciascuno. È tuttavia nella cultura e nella spiritualità cristiane che tale concetto, attraverso anche il contributo dell’arte figurativa, della poesia e della musica, si sia sempre più arricchito di valori e di risvolti capaci di renderlo declinabile o coniugabile, per così dire, a livello umano e naturalistico. Pensiamo solo, ad esempio, alla ricchezza non solo semantica, ma religiosa nel suo senso più alto, con cui Francesco d’Assisi ha inteso “amare”, nel suo celeberrimo Cantico di frate Sole, non tanto e non solo le persone, ma addirittura le creature, da lui viste quale emanazione e rappresentazione dell’Amore per antonomasia: quello, cioè, che Dio padre ha per tutti noi. Basterebbe, probabilmente, questo richiamo semplice ed alto insieme, a rivalutare il senso e la bellezza dell’amore, troppo spesso banalizzato nella nostra cultura contemporanea, per la quale forse con troppa faciloneria (frutto di ignoranza e di mancanza di umanità) il gesto dell’ “amare” è assimilato per lo più ad una distorta idea di “possedere”.

Giuseppe Carozza