Proseguendo nel nostro percorso teso a una riscoperta in chiave poetica dell’evento giubilare lungo i secoli della storia italiana ed europea, è il momento di imbatterci questa volta in uno dei periodi più intensi e contraddittori insieme della storia civile ed ecclesiastica: quello contraddistinto dalla rinascita degli studi classici e umanistici in genere dopo una (ma solo apparente) fase di oblio degli stessi, che molti studiosi fanno spesso coincidere con il Medioevo. Ovviamente, la scansione dei giubilei risente in qualche modo di un tale cambiamento di indirizzo a livello esistenziale e culturale. Di conseguenza, anche l’approccio da parte di poeti e narratori nei confronti del sacro evento finisce per subire evidenti cambi di rotta; per cui alla sacralità che ne aveva contraddistinto la descrizione nei secoli precedenti, ecco sostituirsi un tono evocativo dai risvolti talora tutt’altro che ieratici o liturgici.
È il caso, ad esempio, del tono un po’ canzonatorio di alcuni versi con cui, nel Giubileo del 1475, il poeta toscano Luigi Pulci si rivolge a un amico deridendo i romei più ipocriti: «In principio era buio, e buio fia. / Hai tu veduto, Benedetto Dei, / come sel beccon questi gabbadei, / che dicon ginocchion l’Ave Maria!».
E sostenendo che toccheranno loro non le gioie del Paradiso, bensì le pene dell’Inferno: «Torbo, accia, accia, e mazeri bizeffe», cioè buio (torbo), stoppa (accia) e mazzate (la mazzera, il bastone pannocchiuto).
È del tutto evidente il tono ironico, se non addirittura sarcastico, con il quale vengono additati i cosiddetti “romei” (cioè coloro che si dirigono a Roma per lucrare l’indulgenza), oggetto di battute gratuite e offensive da parte di alcuni intellettuali del tempo.
Con un balzo di mezzo secolo siamo nel 1525 (Lutero con le sue 95 tesi ha già fatto scoppiare la bomba e Roma conosce una tragica crisi che sfocerà nel “Sacco” due anni dopo). Ecco una poesia di Francesco Berni (1497-1535), anch’egli toscano, che con un certo disincanto esorta: «Non vadin più pellegrini o romei / La Quaresima a Roma, agli stazioni, / Giù per le scale sante in ginocchioni. / Pigliando le indulgenze e i giubbilei; / Né contemplando gli archi e’ culisei».
Concludendo beffardo: «Dunque chi si ha a chiarire / Dell’immortalità di vita eterna, / venga a Firenze nella mia taverna».
Così il poeta burlesco, presente al Giubileo del 1525, nel quale si fece notare pure Pietro Aretino (1492-1556). Menzionato di sfuggita Girolamo Casio, modesto viaggiatore, ci attende un vero poeta, forse il primo autore moderno, Torquato Tasso, che nel 1575 conclude la Gerusalemme liberata con l’immagine del capitano dei crociati, Goffredo di Buglione, mentre lascia la spada sul sepolcro di Cristo: «E qui l’arme sospende, e qui devoto / il gran sepolcro adora, e scioglie il voto».
Nel Canto XI dell’opera – che lo stesso Torquato, nel Giubileo del 1575, depone sulla tomba dell’Apostolo – appare un riferimento all’anno del perdono. Sta in una descrizione dell’autore riferita a una processione durante la quale i crociati invocano san Pietro. In questa sorta di rito propiziatorio anche il Tasso fa sentire la sua voce, rivolgendo il pensiero, dopo il Principe degli apostoli, a Gregorio XIII, il pontefice regnante: «Chiamano […] te che sei pietra e sostegno / De la magion di Dio fondata e forte / ove ora il novo successor tuo degno / di grazie e di perdono apre le porte».
In un altro testo poi – Il mondo creato – troviamo l’omaggio del Tasso a Clemente VIII, il papa di più Giubilei straordinari e del Giubileo del 1600, del quale si augura che il «culto accresca / Ne le quattro del mondo avverse parti».
Con il Tasso, rammentiamo la presenza a Roma nel 1575 di Giovanni Battista Guarini, pure al servizio di Alfonso d’Este, non come poeta di corte, bensì come diplomatico: guadagnerà notorietà con un dramma pastorale in endecasillabi e settenari, Il pastor fido, bestseller da cento riedizioni in pochi anni.
Nel periodo barocco, poi, due nomi rilevanti: Giambattista Marino (1569-1625), autore di sonetti e presente all’Anno Santo del 1600 come ospite della famiglia dei Crescenzi, attraverso la quale passa anche il suo rapporto con Caravaggio: lo ricordiamo per i versi che esaltano Clemente VIII «che le porte del Ciel serra e disserra».
E Gabriello Chiabrera (1552-1638) che, in una delle sue Canzoni eroiche, esalta la possibilità di conversione offerta dal Giubileo straordinario indetto da Urbano VIII nel 1623-1625 con questa strofa: «Piani della Clemenza i varchi or sono: / Il grande Urban riapre / Le porte della Grazia e del Perdono / E scorge i nostri passi / Là dove a gioir vassi».
Negli Anni Santi del Seicento si assiste anche al trionfo di molti scritti devozionali, spesso in prosa, talora in versi, che trovano cultori tra le congregazioni religiose: soprattutto libretti distribuiti ai penitenti nei dintorni delle strutture assistenziali.
Di ben altri toni, nello stesso periodo, molte “pasquinate” riportate dai diaristi dell’Urbe. Alcune di queste, anche in rima, alludono a cortigiane protette da persone vicine ad ambienti curiali e che gironzolano vicino ai luoghi santi.
A questo punto, salendo a un genere più alto, bisognerebbe aggiungere almeno un drammaturgo. Basta qui il nome dello spagnolo Pedro Calderón de la Barca (1600-1681), l’ultimo testimone del cosiddetto Siglo de Oro, autore del testo L’Anno Santo in Roma, nato dall’ascolto della musica che aveva accompagnato l’apertura dell’anno giubilare 1650, con le sue processioni, riti e canti.
Restando in ambito musicale, tra la fine del Seicento e l’alba del “secolo dei lumi”, pellegrini e romani assistono a una gran diffusione di oratori, legata a librettisti noti nei circoli accademici del tempo, ma oggi dimenticati.
Se però c’è un poeta che bene interpreta la cesura tra i due secoli, questo è il fiorentino Vincenzo Filicaia (1642-1707).
Nel novero degli Arcadi con il nome di Polibo Emonio, lo si richiama per la lauda Nel giorno che Roma si scopre, scritta nel 1700, della quale riportiamo i versi finali: «Così, più mondi e tersi / Speriam, che a piene mani / Sovra di noi versi / L’erario sacro dei tesor sovrani / Al duolo, al pianto, ai preghi / Speriam che il Ciel si pieghi / Onde ai toschi soggiorni / Di merti onusto il Pellegrin ritorni».
Una menzione anche per Ludovico Sergardi (Siena 1660 – Spoleto 1726), Arcade con lo pseudonimo di Quinto Settano, e le sue Satyrae in latino, specchio del suo sguardo sulla società e la curia romana del tempo.
Sorvolando su componimenti più o meno coevi di altri Arcadi, arriviamo al 1750, l’Anno Santo di Benedetto XIV, così salutato da una scritta sulla statua del già nominato Pasquino: «Ecco il papa che a Roma si conviene. / Di fede ne possiede quanto basta, / manda avanti gli affari della casta / e sa pigliare il mondo come viene».
Come appare facile constatare, non era affatto scontato che un evento dai risvolti così ieratici come un Giubileo non diventasse oggetto di curiosità e di “dicerie”.
Giuseppe Carozza