L’etica internazionale di Francesco

Oltre due anni fa la studiosa Irene Burke presentò un working paper al Liechtenstein Institute on Self-Determination della Princeton University. Il tema? L’ecologia nel magistero di Papa Francesco alla luce dell’enciclica Laudato sì.

I temi dei cambiamenti climatici sono all’ordine del giorno e sono maggiormente scottanti nei Paesi in via di sviluppo. Dall’etica e dall’ecologia, nelle relazioni internazionali la nuova proposta papale si trasforma in qualcosa di nuovo: il recupero di territori e di popoli considerati da sempre ai margini della vita sociale.

Se abbiamo bene inteso, l’allarme lanciato da Francesco si sintetizza in un concetto semplice ma che richiede studio, attenzione, dedizione e carica umana per essere profondamente compreso: si tratta della dimensione globale della povertà, di quella che è sempre stata tale e di quella che con gli anni e con le crescenti disuguaglianze, è diventata tale. La povertà è una piaga globale: alle irrisolte povertà croniche altre se ne sono aggiunte negli ultimi tempi; e non c’è bisogno di arrivare all’attuale pandemia globale per rendersene conto. In un tale contesto possiamo affermare che la Santa Sede è stata decisiva in alcune riflessioni su un futuro sostenibile che sia internazionalmente condiviso: sia nell’ambito delle Nazioni Unite, sia altrove.

E’ stata da alcuni contestata la dichiarata opzione del Papa per i poveri. Non solo evangelicamente questa appare l’opzione preferenziale per eccellenza; ma, calata nelle relazioni internazionali, questa opzione appare come l’unica possibile. Le aspirazioni di Francesco verso una giustizia più giusta e un’economia più equa si sono declinate in quella riflessione sulla fraternità universale condivisa con l’imam della Moschea di al-Azhar, sviluppata nel documento firmato ad Abu Dhabi.

Questo passo, per alcuni, è parso innegabilmente azzardato. Due anni prima della firma della carta di Abu Dhabi il Papa si era recato in Egitto, dove naturalmente aveva visitato anche la moshea di al-Azhar. Secondo alcuni (e ci riferiamo in particolare all’analista James M. Dorsey del Begin-Sadat Centre for Strategic Studies), con questa operazione il Papa ha deciso di muoversi in un campo minato, dato che l’operazione “fraternità” in qualche modo avrebbe messo una sordina alle accuse mosse alla principale moschea del Cairo di essere una centrale ultra-conservatrice fonte di estremismo religioso.

Le cose, lo abbiamo detto in altra sede, sono ovviamente più complesse. Al centro di tutto c’è l’etica. Che l’etica debba entrare a pieno regime nell’economia significa, in linea più generale, progettare una condotta più equilibrata nei rapporti internazionali e nella difesa dei diritti dei più poveri. Un tale orientamento si è manifestato già nell’ottobre 2011, quando l’allora pontefice regnante Benedetto XVI lanciò una forte proposta di riforma della finanza globale attraverso il Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace. Molti Paesi erano sull’orlo della bancarotta e la situazione era particolarmente grave per i Paesi dell’Eurozona e per quelli più poveri. Anni dopo, il 17 agosto 2016, con Motu Proprio il successore di Papa Ratzinger ha apportato una profonda innovazione nella Curia, istituendo il Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale, allo scopo di operare nei più svariati ambiti di competenza del nuovo Istituto, segnatamente «nelle questioni che riguardano le migrazioni, i bisognosi, gli ammalati e gli esclusi, gli emarginati e le vittime dei conflitti armati e delle catastrofi naturali, i carcerati, i disoccupati e le vittime di qualunque forma di schiavitù e di tortura».

Sembrerà strano, ma la globalizzazione non ha fatto che intensificare la presenza della Santa Sede nella storia sociale internazionale. Anche la riforma della Curia, solo apparentemente interna, è andata in questa direzione. Ciò ha consentito al Vaticano di far sentire chiaramente la sua voce: che si trattasse di chiamare il G-20 alle sue responsabilità verso gli ultimi; o che si trattasse di lottare contro la speculazione finanziaria internazionale; fino ovviamente a invitare tutti a una maggiore attenzione allo sviluppo sostenibile.

Tutti questi passaggi spiegano il “Francesco di oggi”, inteso come un’autorità morale e spirituale in grado d’influenzare la riflessione politica e politologica internazionale.

Un aspetto tuttavia non va taciuto: l’effetto politico internazionale scatenato in alcuni ambienti dalla figura di Papa Francesco. Fu il “New York Times” qualche tempo fa a mettere le cose in chiaro, in un articolo significativamente intitolato Pope Francis in the Wilderness (Papa Francesco nella landa desolata). «Il clima politico – scriveva l’autorevole quotidiano – è sempre più sotto attacco. Il clima politico nel mondo è repentinamente mutato, rafforzando populisti e nazionalisti che si oppongono a gran parte di ciò che Papa Francesco sostiene» (corsivo nostro). Sotto molti aspetti (e parliamo sempre degli aspetti internazionali di questo pontificato) una tale situazione è perfettamente comprensibile dal momento che siamo di fronte a un pontificato che “prende le parti”, che non tollera l’indifferentismo; che, detto in altri termini, si schiera. Questo è particolarmente vero per un motivo chiarito da Maria Clara Bingemer su Foreign Affairs: «Lo sforzo del papa di restituire ai poveri un posto centrale della vita cattolica».

E’ questa la roadmap di Francesco. E’ presto per dire se tutto ciò stia dando nuovo impulso alle prospettive di sviluppo dei Paesi più poveri. Certamente è una spinta significativa di cui la Chiesa di Francesco è al contempo attore e testimone.

Matteo Luigi Napolitano