Campobasso. La fraternità nel ‘tremito delle mani’ come dilatazione del Regno di Dio

 

 

Una volta, i confessori che si incontravano lungo le stradine cosiddette “vie dei penitenzieri”, usavano pronunciare questa frase nel congedare i fedeli pentiti: “Và, torna alla vita, col marchio di appartenenza a Dio, che è il Suo perdono, e percorri d’ora in poi la carriera della sacra milizia dentro la Sua infinita benevolenza. Sii fratello di tutti!”. Erano parole che difficilmente si dimenticavano. E questo lo attestava in una lettera il mio parroco, ormai in cielo. Mi fece erede dei suoi scritti, prima di lasciarci, profetizzando con simpatia che avrei studiato, come lui, Filosofia. E così è avvenuto. Ho aperto questo scrigno di suoi appunti e meditazioni solo dopo circa dieci anni e da allora, tutte le volte, sento in quelle pagine la presenza di un testimone autentico, coerente con quanto predicava, specie la domenica mattina, alla radio del paese. Torno spesso a leggerli, traghettanti ogni volta di quella pace improntata sui sentimenti di Cristo. Appena letta la nuova enciclica Fratelli Tutti, in modo particolare, il capitolo secondo, mi è tornato in mente un frammento di quelle lettere che io ho sempre stretto al mio cuore nell’ora delle persecuzioni e che dice così: “Per passare indenne sui tanti serpenti che attenteranno alla tua vita, calza i tuoi piedi del Vangelo della Verità e ne sarai liberata!”. Posso dire che Dio fa davvero grandi cose in quelle anime sante che, come il mio parroco, hanno saputo farci giungere il calore della presenza di Dio nelle prove della vita e indicarci come unica arma il Vangelo, creduto, abbracciato, incarnato!

La ricca e sostanziosa enciclica è perciò un dono che dobbiamo accogliere con immensa cura. E’un forte insegnamento per la rigenerazione del mondo. Una rifioritura pasquale che impegna tutti, perché può vangare e dissodare quel terreno incolto e desertificato che è la società carente di fraternità vera. Nello stesso tempo il Papa ci fa capire che dove c’è fraternità c’è Dio che comunica la Sua vita e che lasciarla crescere ci completa nella nostra somiglianza con Lui.

Liberazione e rinascita ci radunano in questo compimento misterioso di fraternità universale. Qui il fuoco della Promessa precipita i dispotici dai loro troni intoccabili e solleva invece fino alle sommità quanti cercano che la Giustizia si affacci dal cielo e si riversi sulle vite spezzate, piagate dalle oscenità del male. E questo avviene. Sì, col suo tempo. Con verità. Creando filamenti di luce e di portenti. Non solo negli ambienti dove il potere si veste di odio e di inganni, ma anche in quella parte di Chiesa, dove ancora, si flagella il prossimo a causa dei propri reconditi rigurgiti di supremazia. Dove si fa soccombere l’altro, solo perché si scambia il servire col comandare, il testimoniare con lo scandalizzare, la compassione con la tirannide morale e psichica. E il Papa dice chiaramente che chi opera così e si mostra con questi atteggiamenti superbi da membri di clan, piuttosto che da battezzati, non fa altro che rinnegare il sangue di Cristo e vivere di disprezzo nei confronti della fraternità. Essi rappresentano i nemici dell’Umanità che Gesù piange in noi, quando l’altro è crocifisso e non rialzato. Quando è aggredito e non nutrito. Quando si spegne l’aurora della fraternità.

Non esiste, però, una pena peggiore di quella che soffrirà chi, davanti al cospetto di Dio, si renderà conto dei tanti sorrisi soffocati nei fratelli, della speranza che si è distrutta negli altri, del pane che si è tolto alla tavola del prossimo, della disperazione che si è scavata nella vita di chi si è arreso. Perché mai nessuno sarà mai strappato dalle mani di Dio: gli innocenti colpiti e lasciati per strada,  chi è derubato della quiete personale, della propria patria, dei propri cari, chi è vittima di forme di violenza. E’ proprio questo che, secondo il Papa, spiega che “nessuno può sperimentare il valore della vita senza volti concreti da amare” (87).

Chi incappia la fraternità, in verità, ha già condannato se stesso, non i fratelli che ha ferito, bastonato, mandato in rovina. Al contrario, chi difende, serve e diffonde la fraternità imprime ogni giorno il bacio sulle piaghe della carne redenta di Cristo che sono i poveri e i sofferenti, perché pensa, agisce e si relaziona in termini di bene e di comunione.

Per quanto i malvagi si abituano a voltare altrove lo sguardo, gli occhi di Dio sono sempre su chi lo invoca. E sempre se ne prede cura.  Essere fratelli è allora portare l’eco di questa divina amabilità, nella certezza che il mondo non ha bisogno di altro male. Assolutamente no! Ce n’é fin troppo e incontrollato. Opprimente. Ha bisogno semmai di spalle calde, come quelle del Buon Pastore. Ha bisogno di braccia accoglienti, come quelle del Buon Samaritano. Ha bisogno di grembi che danno dimora alla volontà di Dio, come Maria di Nazaret. E l’uomo, che lo abita spesso abusandone, ha bisogno egli di amare per poter vincere se stesso e corrispondere alla sua innata bellezza. Perché “siamo stati fatti per la pienezza che si raggiunge solo nell’amore. Vivere indifferenti davanti al dolore non è una scelta possibile; non possiamo lasciare che qualcuno rimanga ai margini della vita. Questo ci deve indignare, fino a farci scendere dalla nostra serenità per sconvolgerci con la sofferenza umana. Questo è dignità” (68).

Le molte sottolineature del Papa sembrano dei gradini che portano all’altare del cuore e si compendiano in questa sola, che smuove le viscere con una profonda commozione: “C’è bisogno di gesti fisici, di espressioni del volto, di silenzi, di linguaggio corporeo, e persino di profumo, tremito delle mani, rossore, sudore, perché tutto ciò parla e fa parte della comunicazione umana” (43). In quel tremito delle mani ci sono soprattutto le rughe dei nostri anziani, patrimonio dell’Umanità più dei monumenti antichi, delle opere d’arte eccellenti. Quegli anziani che, in questa fase storica tremenda, non sono solo lasciati soli, ma persino isolati. Si prova un senso di tristezza mista a tenerezza pensare poi agli effetti psichici che sta causando questo periodo anche nei giovani. Nessuno tocchi la loro speranza, così come ha dichiarato di recente con toni accesi lo psichiatra Vittorino Andreoli, in un breve intervento tv al TG5, preoccupato di questo sistema che “semina paura paralizzante, distruttiva, che uccide la speranza e indebolisce tanto anche il nostro sistema immunitario”.  La cattiva Politica, che va avanti a pressioni e inerzie viziose, va delegittimata quando ci priva della medicina più importante che è appunto la speranza, promuovendo tutti quei processi che, invece, ci consentono di “progredire verso una civiltà dell’amore” (183) e ci aiutano a “sprigionare nuove energie relazionali, intellettuali, culturali e spirituali” (196). Guardiamo allora agli eroi del futuro che, secondo Papa Francesco, saranno coloro che “sapranno spezzare questa logica malsana e decideranno di sostenere con rispetto una parola carica di verità, al di là degli interessi personali” (202). Il Papa non a caso denuncia poi il fatto che “tutto diventa una specie di spettacolo che può essere spiato, vigilato, e la vita viene esposta a un controllo costante” (42). Ma non si tratta affatto di un controllo amorevole, come lo è la premura di un genitore, di uno sposo verso la sposa, di un’amica. Bensì di un ‘controllismo impazzito’ che pensa di impadronirsi del mondo, di gestire tutti come numeri o cose. Attenti, dice il Papa, all’Impero del denaro che deteriora le fondamenta dell’essere fratelli, “all’inclinazione dell’essere umano a chiudersi nell’immanenza del proprio io, del proprio gruppo, dei propri interessi meschini” (166). Attenti a chi brama di depredarci del dono più grande, che è la libertà. Perché solo se siamo liberi possiamo viverci come doni reciproci, fraternamente, responsabilmente. E’ questo il modo di fare storia, di fare la storia.

Ylenia Fiorenza